MedFilm Festival 2012 / State of Shock

Durante il giorno della Festa Nazionale dei Lavoratori del 1986, Peter riceve l’ambito, quanto inaspettato, riconoscimento di “Lavoratore dell’anno”, annesso ad un nuovo appartamento in cui vivere con la moglie e i due figli. L’uomo, vinto dalla gioia e dallo sgomento, cade a terra, piombando in uno stato di shock che lo porterà a trascorrere dieci lunghi anni della sua vita nel letto di un ospedale psichiatrico, per poi risvegliarsi solo nel 1996, quando ogni cosa è irrimediabilmente cambiata, nella sua vita e nella nazione intera.

Questo il punto di partenza, la premessa di State of Shock (Stanje Šoka), pellicola diretta da Andrej Košak, pluripremiato regista e sceneggiatore di Lubiana, incentrata sulla tragicomica vicenda di un onesto operaio siderurgico sloveno, affettuoso pater familias, sostenitore del Partito Socialista, alle prese con la trasformazione politico-sociale del proprio Paese e con le inevitabili conseguenze che questa stessa implicherà. In realtà al di là del plot narrativo e delle sue paradossali trovate sceniche, generanti l’ilarità dello spettatore (Peter che scopre il matrimonio della moglie con il suo collega grassoccio e strampalato, Jovo, irrompendo durante il banchetto nuziale; Peter che tenta di ricostruire la propria vita, anche dal punto di vista lavorativo, ed incappa in una serie di vicissitudini che lo porteranno prima all’arresto e poi ad essere derubato; etc.), il bersaglio critico di Košak è il nuovo assetto politico dell’Est europeo; un assetto che ha operato un drastico ribaltamento dei valori morali, in una Slovenia, ovvero una delle sei Repubbliche che costituivano la Jugoslavia, ormai affrancatasi anteponendo l’interesse economico a sentimenti autentici come l’onestà.

E’ proprio questo che Peter, interpretato da uno straordinario Martin Marion, indiscusso mattatore della pellicola, non accetta. Non accetta quella voglia irrefrenabile di sentirsi a tutti i costi membri di una comunità europea che ha catturato la mente dei suoi concittadini. Non accetta, del resto, il fatto di essere bollato come pazzo da dottori, parenti, amici e, soprattutto, dagli esponenti di quel sistema capitalistico che l’ha depredato del lavoro, sostituendo alla forza della braccia umane quella delle macchine. Egli pare essere, al contrario, il più lucido di tutti, pur scontando il prezzo di quell’accusa ingiusta, e l’esclamazione “If there is anything that’s crazy around here, it’s society, not me” (“Se c’è qualcosa di folle qui intorno, è la società, non io”) è il suo disperato grido di verità.

Alla fine la tenacia del nostalgico Peter avrà la meglio sullo strapotere dei nuovi, disonesti ed arroganti padroni, insediatisi nella sua ex fabbrica: ogni magagna verrà smascherata e l’oppressore/ladro cacciato via in malo modo. La scena finale, in cui Peter riabbraccia la moglie ed i figli invitando Jovo a seguirli, dirigendosi sorridente verso l’uscita, ha un che di consolatorio. Il bene (alias proletariato) sembra aver vinto sul male (ovvero il capitalismo).

Tuttavia è una vana speranza, una visione rassicurante. La realtà è un’altra, ma nelle intenzioni di Andrej Košak, deus ex machina della vicenda, giustificata: quello dell’operaio Peter è il giusto lieto fine di un eroe antico che, dopo aver subito beffe di vario genere dal destino, torna alla normalità, quanto meno a quella dei suoi affetti più sinceri. E se gli ideali del Socialismo sono superati, quello che gli resta è continuare a vivere la vita con l’onestà di sempre.

Autore: Simona Cappuccio
Pubblicato il 29/01/2015