MedFilm Festival 2012 / “Alto Sauce”, “Kinoki” e altri

Mostrare la verità non è cosa facile, per il semplice motivo che ciò presuppone due concetti non scontati: che essa esista e che sia possibile raggiungerla. Neanche la moltiplicazione delle storie (Rashomon) o dei supporti (Redacted) garantiscono di poter arrivare ad un resoconto completo, anzi più si incrementano i punti di vista più a venire rappresentato è l’informe discorso caotico che sottende il reale piuttosto che un’univoca verità. Quel che rimane sono tracce, la cui ricombinazione ha un esito niente affatto scontato. Sono sensazioni di quest’ordine quelle che emergono dalla visione di Alto Sauce, il coinvolgente cortometraggio di Fernando Pomars con il quale il giovane regista spagnolo ha vinto l’Uovo d’Oro come miglior corto al Festival Internazionale del Cinema e della Musica di Kustendorf, ideato da Kusturica. Con uno stile vicino a Lynch per i lenti movimenti di macchina e la rarefazione delle sue inquadrature ipnotiche, Alto Sauce ripercorre i tentativi investigativi di ricostruire una molestia sessuale subita da una giovane ragazza, rapita e seviziata nel bosco per un giorno. Il particolare è che l’unica guida nel nostro percorso sono le voci registrare dei rapporti di polizia, delle testimonianze, dei servizi giornalistici, mentre le immagini si soffermano sui dettagli evocati dalle multiple tracce sonore. Il solo significativo momento in cui sentiamo una voce in presa diretta è nel presente, 18 anni dopo la violenza, quando la giovane protagonista trova infine la forza di raccontare il tutto, nonostante ciò non basti ad arrivare ad una verità univoca.

Kinoki lascia inizialmente perplessi. Non si capisce se il racconto in forma di mockumentary di un villaggio che ha trovato il modo perché tutti i suoi abitanti siano felici possieda un reale candore ingenuo o, al contrario, sia una sottile farsa del vetero comunismo russo. Già il titolo, quel “cineocchi” che rimanda al regista e teorico sovietico Dziga Vertov, costituisce di per sé un primo indizio intrigante. Non a caso il sottotitolo dell’opera è “linee guida per una vita migliore“, basate perlopiù sul concetto di condivisione comunitaria. E nel piccolo villaggio francese, presentato da filmati super8 accompagnati da una voce narrante, tutti si divertono davvero, le feste sono all’ordine del giorno e ognuno presta il proprio aiuto per realizzare progetti che intrattengano l’intera comunità; miriadi di eventi a tema come il festival dell’America, in cui si festeggia tutto ciò che piace degli USA, cowboy e hamburger, o la costruzione di piscine, tutto sotto il controllo di comitati e sottocomitati organizzati con estrazione a sorte. Non sembra sia possibile che qualcuno si alieni o non voglia partecipare alla vita collettiva, e ci si chiede quale sarebbe la reazione in tal caso. Né d’altro canto si può dar torto alla filosofia secondo cui basta dar un poco ognuno perché tutti stiano bene. Ma parodia o messaggio serio che sia non conta, perché indipendentemente da ciò Kinoki presenta una piacevolezza nel raccontare le immagine con uno stile buffo e surreale che ne rende assai gradevole e divertente la visione.

Uno di molti altri, con occhiali a lenti speciali consegnate alla nascita, scopre che quest’ultimi, magici, servono per far credere senza vedere realmente. Servono per fargli credere di stare scrivendo qualcosa su un quaderno, quando in realtà su di esso non rimane traccia alcuna della penna. L’inchiostro è magico, si volatilizza e viene controllato da ammalianti suonatori di tamburi che lo dispensano senza che esso esista veramente. La libertà si perde nel vento così come le parole, gli slogan, la promessa in un mondo migliore, inesistente e causata dagli occhiali, illusione tanto più importante di quella del mondo attuale, del tutto priva di traccia. Scoperto tutto questo, lo comunica ai colleghi. Il cortometraggio di Nadia Rais L’Mrayet, donna regista sotto il regime di Ben Ali, è un chiaro esempio di come si denuncia un sistema senza ferirlo verticalmente. Il mondo nel quale la regista fa veicolare il messaggio appartiene alle atmosfere fantascientifiche di molta letteratura anti-totalitarista orwelliana; le animazioni si muovono in una frenesia del tratto in grado di sottolinere pienamente il movimento interiore e l’affabulamento dettato con forza dall’alto, attraverso un offuscamento che agisce sullo sguardo, come l’uso di quegli occhiali speciali che rendono attraente tutto ma, allo stesso tempo, falso e grigio. In prossimità dell’occhio, gli occhiali appartengono al popolo sottomesso da un regime, qualunque esso sia, qualsiasi forma esso possa assumere.

Stevan M. Zivkrovic, un elettricista presso la stazione di una tv locale, ascolta sull’emittente per la quale lavora l’annuncio della propria morte. É una mattina meravigliosa, beve caffè con sua moglie quando apprende la notizia: beh! Pirandellianamente probabile. Stevan M. Zivkrovic è morto per tutti. É presente al funerale quando lo tumulano, guarda tutti che lo piangono. Ma Zivkrovic è vivo. É forse un miracolo o una sventura? Lui sale in barca e se ne va; poi vicino a lui, alla deriva, passa la televisione dell’annuncio. Questo è Stevan M. Zivkrovic, al cui omonimo protagonista presta il volto il serbo Slavko Stimac, attore feticcio di Kusturica, perfetto e collaudato nelle interpretazioni meravigliate e paradossali della vita. Dal quotidiano si sviluppa il grottesco, lo stile è quello già testato, asciutto, quasi iperrealista, sporcato da una situazione incredibile, dove l’uomo diventa individuo ed individuabile, dove se la televisione ti annuncia morto, te diventi morto per gli altri e non ti rimane che godere del privilegio di esserlo.

C’è qualcosa di doloroso nel rapporto a senso unico padrone/animale raccontato in Gerayî? (The Search), almeno per quanto riguarda la facoltà espressiva: un uomo perde il proprio cavallo e disperato lo cerca ovunque, lo aspetta, lo sogna, si incolla alla finestra ad ogni minimo rumore. Intanto il cavallo, lontano, vaga calmo per la pianura, mangia erba, perfettamente in armonia con la calma indifferenza della natura circostante, del tutto dimentico né agitato dall’assenza dell’uomo che fino a prima peraltro aveva dovuto conoscere, almeno come mera abitudine visiva. D’altra parte il racconto non può essere che esclusivamente umano, perché che cosa davvero possiamo sapere di quello che pensano gli animali riguardo le persone con cui convivono? Quieto al punto da apparire estenuante, il corto assomiglia a un pensiero estemporaneo che lì per lì, come un filo di fumo, si sviluppa nell’aria, un concetto intrapreso e poi abbandonato senza altra soluzione che il senso proposto dallo spettatore con la propria immaginazione.

Autore: Redazione .
Pubblicato il 29/01/2015

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