Manchester by the Sea

La lezione di racconto di Lonergan non si riferisce alla realtà, ma alla letteratura: la sua bilanciata drammaturgia produce un film magnifico che tocca esiti struggenti.

C’è un uomo, Lee (Casey Affleck), che vive di piccoli lavori come tuttofare nei condomini. C’è un’ex moglie, Randi (Michelle Williams) come ricordo lontano. C’è un fratello, Joe (Joe Chandler) con una grave malattia al cuore. C’è un nipote, Patrick (Lucas Hedges), adolescente di oggi col padre malato che affronta il college, l’hockey, le ragazze. E soprattutto c’è un luogo che sembra emanare i personaggi, Manchester by the Sea in Massachusetts, affacciato sull’Atlantico, con le case dei pescatori e le aste delle barche come parti del corpo. Quando per Joe arriva l’attacco fatale il giovane Patrick diventa orfano: il testamento, a sorpresa, dice che Lee sarà il tutore di Patrick. L’uomo, schivo e solitario, incapace di gestire la rabbia, si trova chiamato ad affrontare la relazione non più con un nipote, ma con un nuovo figlio.

Kenneth Lonergan, drammaturgo newyorkese passato dal teatro alla sceneggiatura (la più nota, Gangs of New York) e infine alla regia, firma l’opera terza dopo Conta su di me (2000) e Margaret (2011) confermando l’assunto dei primi film: Lonergan non si riferisce alla realtà, ma alla letteratura.

I suoi testi raccolgono la tradizione della narrativa americana, unendola al romanzo contemporaneo, la rielaborano in modo peculiare, vi riflettono sopra e costruiscono la sua messa in immagine. È figlio del tema per eccellenza, la Famiglia e la sua dissoluzione, delle parabole domestiche di Joyce Carol Oates e dei traumi passati di Elizabeth Strout (ne I ragazzi Burgess gli adulti del titolo lasciano la loro città a seguito di una tragedia: esattamente come in questo film). È debitore della figura chiave di John Irving, con la morte che precede una simbolica adozione come in Preghiera per un amico, ma anche dei percorsi per affrontare il lutto di Safran Foer, del caso che non è mai casuale in Philip Roth (Lonergan è di madre ebrea, ulteriore legame ai due scrittori). Attenzione però: se il punto di origine è questa narrativa coi suoi topoi, il regista è lontano dalla mera citazione o dalla riproposizione del noto, bensì attraverso un percorso stratificato e complesso egli propone un’ipotesi cinematografica peculiare che sottintende i riferimenti ma segue una strada propria. È letterario, Lonergan: per questo ingrandisce gli stereotipi, come l’attacco di cuore che avvia il racconto (allo stesso modo l’incidente stradale innescava l’intreccio di Margaret) o l’incendio che porta via tre figli, evento volutamente esagerato che dimostra l’idea dell’"aumento" coltivata nella scrittura dell’autore (non si perde un figlio, ma tre).

Oltre all’uso consapevole dell’archetipo, però, ciò che più colpisce in Manchester by the Sea è la gestione del racconto: in tal senso il flashback si offre, senza mezzi termini, come il migliore utilizzo di questo strumento nel cinema americano contemporaneo. Lonergan fa leva sullo sguardo all’indietro per costruire un percorso di svelamento graduale, che si applica sia alla natura dei personaggi sia alla sostanza dei fatti: per esempio, in incipit troviamo un Lee alcolista e violento nel pub, che provoca risse per nulla, e pensiamo sia un tratto intrinseco del carattere salvo poi - gradualmente, appunto - apprendere che è conseguenza di un tragico trauma. Ma ancora più mirabile è il flashback che riguarda l’evento, ovvero quando disegna la completezza di una situazione e le dona senso, come nello sguardo retroattivo sulla vita di Lee e in particolare nella ripresa dell’uomo che rientra a casa dalla moglie: l’inquadratura prima è stretta su di lui, poi si "apre" ed entrano in campo uno, due, tre figli, completando la ricostruzione del passato nella sua interezza. Lonergan è l’unico regista che rende rivelazione la composizione di una famiglia.

L’autore scrive al millimetro sia i protagonisti che le figure secondarie. La strategia drammatica poggia su una lenta preparazione, che inizialmente adotta un registro sottovoce, dedito a cesellare la minuzia e il particolare: la sfaccettatura del dettaglio però non è il contorno, è il punto della questione. Quando arriva alla scena madre - poi - tocca il tono più alto, trattenendo la costruzione dell’attimo: Lee (il migliore Casey Affleck di sempre) in ospedale apprende della morte del fratello, in una sequenza che si offre come preparazione all’"incontro" col cadavere, dove l’uomo ripiega la corazza e abbraccia il corpo morto in un gesto prolungato e struggente. Ma, davvero, non c’è differenza tra il motivo principale e le sfumature: Lonergan gira un film magnifico in ogni sua componente, con ogni personaggio secondario funzionale al racconto, ma anche attentamente studiato e vitale. Si consideri il Rodney di Matthew Broderick, nuovo compagno di Randi: l’e-mail che invia a Patrick è una prova di tale caratterizzazione, soprattutto perché non arriva dal vivo ma in forma scritta - l’ennesima trovata letteraria - e perché, con una negazione dislocante, non ci è permesso leggerla tutta dato che Patrick chiude lo schermo stizzito, proprio come si farebbe nella vita. È un continuo rilancio sull’umanità delle figure che, allo stesso modo, può sprofondare nel dramma più disperato o seminare una sottile ironia: così si inscena un attacco di panico, quando il freezer di casa rievoca la cella frigorifera (con la sovrapposizione agghiacciante tra pollo surgelato e cadavere del padre), e così si sorride sulle astuzie adolescenziali per conquistare le ragazze.

Manchester by the Sea frustra continuamente l’attesa di chi guarda: non è un film sull’elaborazione del lutto, tutt’altro, il trauma non si supera ma si introietta in sé, diventa parte di noi e andiamo avanti al suo fianco. D’altronde l’inquadratura di Manchester dal mare, che si ripete all’inizio e alla fine, non è in divenire ma immobile, non propone un movimento ma registra la stasi, che è anche quella dei personaggi chiamati a rilevare una situazione, non a fare passi avanti. Lo spiazzamento di Lonergan avvolge proprio il racconto in sé, inteso come conduzione del tessuto narrativo: accade che una figura, la Randi di Michelle Williams, giaccia in secondo piano per la maggioranza del film per poi risaltare in evidenza nell’incontro con Lee. E qui, picco dell’opera, in totale contropiede sul previsto l’autore trasforma il confronto in un’anti-scena madre: Lee e Randi provano a parlarsi ma non dicono nulla, non arrivano alla parola, si limitano a balbettare e così il dialogo fallisce. A un incontro "sbagliato" non è data la possibilità di svolgersi.

Un film che contiene tutto: forma, contenuto e simbolo, come attesta la sequenza prefinale in cui Lee e Patrick si passano la palla da baseball, rimpallando reciprocamente il dolore, pallina che poi si perde per il sentiero sull’invito di Lee: "Lasciala andare". Personaggi mai univoci, senza etichette, sfaccettati a più lati sino a diventare inafferrabili, dunque umani, una costruzione in crescendo che tocca altezze estreme: Lonergan schiera il migliore racconto cinematografico del 2016. Per accoglierlo occorre uscire dal riflesso mentale della verosimiglianza, dalla dittatura del realismo per rivolgersi a un’altra sfera: quella del narrare, l’attuazione personale di una pratica alle massime possibilità, che è un atto moderno e insieme antico, che torna alla necessità di generare una storia e di rappresentarla.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 24/10/2016

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