Sing Street

L'educazione musicale nella Dublino anno '80 firmata John Carney.

Sing Street di John Carney è un piccolo antidoto all’occlusione dei sogni causata principalmente, nella vita, si sa, da due grandi classici: il tempo che passa; l’impatto con la realtà.

Il meccanismo della nostalgia, recupero interiore di oggetti del passato come merchandise emotivo, spesso senza nessuna oggettività porta a rimpiangere insieme a sprazzi di ricordi e lucide memorie, anche cose mai vissute, ma fortemente immaginate, desiderate, vissute indirettamente, esaltazione di un sentimento trasognato ma reso vivido da qualcosa di fondamentale che sembra averci lasciati da tempo orfani: la potenzialità.

A dispetto di un tempo presente che tende al cinismo e all’anaffettività, Sing Street non ha timori a porsi schietto e tenero e non è una scatola nostalgica in cui raggomitolarsi, ma taglia a metà il decennio degli anni ’80 con un’energia potenziale che esiste qui e ora, fruibile grazie alla sua sincerità. Questa simmetria è però il trait d’union e il muro divisorio di un film che poggia sulla costante della dualità e della separazione.

Quella fisica di pareti domestiche attraverso le quali filtrano liti famigliari; di mura scolastiche che coprono atti di bullismo; dell’azione iterativa dell’amico che apre la porta di casa sempre disposto a scrivere una nuova canzone; della ragazza amata che di colpo a casa non c’è più. Quella istituzionale fra la ribellione del protagonista e la rigidità del costume cattolico; quella generazionale tra il fratello maggiore–guru musicale che ha tuttavia fallito nelle sue ambizioni e passato la palla al nuovo arrivato; quella mediatica che, attraverso il neonato videoclip trasforma un’aggregazione estemporanea di ragazzini ispirati ma inesperti in una vera band e un’aspirante modella in un’icona dedicataria del singolo di esordio “The Riddle of the Model” (chi ha visto il film probabilmente ha appena letto questo titolo cantandolo mentalmente), scritta in collaborazione col musicista scozzese Gary Clark, misto di influenze che vanno dai Duran Duran agli Alphaville nel sound, con una linea vocale che rimanda ai Depeche Mode, ma che ricordan perfino i Kraftwerk di Das Model nel testo, studiatamente ingenua e derivativa ma infine così efficace che la tentazione di inserirla in una playlist è dietro l’angolo oggi che il reperimento di un brano è così facile, come non era nell’epoca di riferimento della storia.

Il volto binario del film è anche quello che proietta lo spettatore in un sentimento futuribile, ma associato a un’epoca passata, lo stesso per cui il protagonista si dichiara un “futurista”, ma trasforma la performance sul palcoscenico negli anni ’50 del famoso Ballo incanto sotto il mare di Ritorno al futuro. A questo mutuo scambio fra le epoche e fra realtà e immaginazione, che crea una tensione quasi meta-testuale, partecipa anche la scelta di un protagonista che, per esplicito desiderio del regista, non è un attore di professione; però è un cantante, quello che nella storia cerca di essere e dice di essere fin dal principio alla ragazza che deve conquistare, cosa che, quindi, a conti fatti non è nemmeno una bugia.

Il travestimento che permette di mutare la realtà nel desiderio (e forse il desiderio in realtà?) parte dallo stesso titolo che con un classico gioco di cambio enigmistico di lettere, trasforma l’istituto scolastico cristiano cattolico di Synge Street che sorge nell’omonima via Dublinese, in “Sing Street”, camuffamento a colori della grigia realtà che è la chiave di quasi ogni musical. E da quel dì, i nostri eroi-musicisti che da un momento all’altro sono una band perché hanno degli strumenti, un salotto e una mamma altrui paziente, un giorno sembrano i Village People, un altro sono i Duran Duran di Rio, gli Spandau Ballet e di colpo perfino i Cure e non si può non sorridere.

Non è un catalogo citazionistico, ma un’esplicita copiatura ironica, con un candore che non è di precedenti illustri quali The Commitments. Beneficio della povertà: John Carney si autodefinisce quello che nell’Irlanda del tempo era un “low budget guy” e la costumista Tiziana Corvisieri interpreta quegli anni con l’autenticità di chi li ha vissuti, ma con una vividezza garantita dalla fotografia di Yaron Orbach che rende il sentimento attuale.

Tutto questo per dire: Sing Street sembra un film carino, simpatico, forse, per qualche nostalgico amante del genere (musicale soprattutto). Invece è un bel film con un cuore, che si rivolge a chi ne ha conservato ancora un po’.

Il suo dualismo strutturale diventa dunque dichiarato nella definizione dell’amore come “happy-sad”, l’essere felici dell’essere tristi, stralcio di educazione sentimentale subito tradotto in musica, perché è evidente che musica-amore-malinconia non siano scindibili e la felicità è appunto “in potenza” in tutti e tre, mai l’uno senza l’altro. Il motore dell’azione è nello slancio sentimentale, nel desiderio di fuga che fa sognare l’Inghilterra come terra promessa da un’Irlanda che vive di speranze; ma resta un discorso da isola a isola, per cui, non tra il dire e il fare, ma tra il sogno e la sua realizzazione c’è letteralmente il mare di mezzo.

Almeno, lo stiamo percorrendo: lo testimoniano i volti bagnati dalle onde che cercano, dalle quinte della finzione, di testimoniare che è tutto vero, forse. Il film ci consegna questa energia che non si sa a cosa porterà, ma che almeno c’è, ed è un bene.

Autore: Alessia Astorri
Pubblicato il 13/11/2016

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