MAMbo / OFFICINA Pasolini

Uno sguardo inedito sull'opera e la personalità di Pasolini

«Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore./ […] E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»

Emblematicamente il progetto speciale che la città di Bologna ha dedicato a Pasolini prende il nome da un verso del famoso componimento dell’altrettanto celebre raccolta Poesia in forma di rosa: con un programma ricco ed eterogeneo Più moderno di ogni moderno. Pasolini a Bologna ha coinvolto la città intera per sei mesi con incontri, conferenze, dibattiti, proiezioni, performance, spettacoli teatrali e mostre. Una miscellanea di eventi votata ad indagare e ad approfondire la figura dell’intellettuale a quarant’anni dalla sua morte e a rivendicare la centralità della sua opera e del suo pensiero nella contemporaneità, con una duplice presa d’atto: Pasolini è lontano e vicino al contempo, una forza del passato, un fantasma ingombrante che però non smette di inquietare il presente.

Culmine di questo progetto è la splendida mostra OFFICINA Pasolini, allestita negli spazi del MAMbo dedicati alle esposizioni temporanee, a cui è spettato l’arduo compito di restituire la complessità del mondo culturale, estetico e poetico dell’autore. Il magmatico corpus pasoliniano si regge sulla contaminazione di molteplici temi e linguaggi espressivi, optando così per una delicata operazione di messa in mostra, ma riuscendo ad evitare il rischio di presentare un montaggio sconnesso di opere. I curatori, Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli, sono infatti riusciti ad evitare soluzioni banali e a restituire un’immagine organica facendo leva proprio sulla natura strutturalmente frammentaria del lavoro di Pasolini e non omettendo alcun codice espressivo da lui sperimentato. E così a testimoniare il solido intreccio e la frenetica sperimentazione tra immagini e parole si trovano in mostra rari documenti d’archivio, molti dei quali autografi, felicemente mescolati a immagini fotografiche, pittoriche e cinematografiche; una costellazione di elementi organizzata in sezioni tematiche e allestita come fosse una cattedrale gotica. In particolare il corpo centrale, la macro-sezione dedicata ai Miti, è una vera e propria navata in cui è possibile esplorare lo spazio lungo le direttrici verticali e orizzontali: le prime dirigono l’attenzione verso l’alto con una progressione che va dalle fasi di elaborazione delle idee – le teche contenenti i documenti autografi – ai risultati finali che a queste fanno riferimento – gli stralci di film che sovrastano l’intero spazio su due lati come fossero delle vetrate; le seconde consentono invece di abbracciare con uno sguardo tutto l’insieme.

Un allestimento riuscito su più fronti, dal sottolineare il complesso atteggiamento verso la tradizione letteraria e storico artistica – i cui temi e motivi vengono continuamente rimaneggiati, rielaborati e riadattati – al rimarcare con forza l’idea di laboratorio/officina che regge l’intera mostra. Non stupisce così trovare in apertura, all’interno delle due sezioni più strettamente biografiche e dedicate a Bologna – La prima città e I ritorni – diversi tributi proprio a un docente universitario e storico dell’arte del calibro di Roberto Longhi che seppe innovare, anacronizzandola, la disciplina e che divenne per lo stesso Pasolini, che aveva frequentato i suoi corsi all’università, maestro d’elezione. Peraltro, come è noto, Longhi fu anche autore nel 1934 di un famoso saggio intitolato Officina ferrarese e omaggiato da Pasolini con la fondazione – assieme agli intellettuali Roberto Roversi e Francesco Leonetti – nel 1955 della rivista bimestrale di poesia Officina; al di là del titolo, il saggio e la rivista condividevano le stesse istanze di rinnovamento metodologico: il primo svecchiando un approccio canonico nei confronti della tradizione figurativa, la seconda promuovendo uno sperimentalismo e un razionalismo di impronta gramsciana e marxista in netta polemica con la letteratura ermetica e neorealista. Basterebbe questo a giustificare il titolo della mostra e il suo peculiare allestimento, eppure si impongono ulteriori riflessioni: anzitutto la metamorfosi degli spazi del museo, in quanto eco dell’architettura chiesastica medioevale, enfatizza l’idea di laboratorio; allo stesso modo in cui le chiese medievali erano infatti frutto della collaborazione di più maestranze così l’officina pasoliniana si configura come un cantiere fatto da più registri linguistici, elaborazione e collazione di parole e immagini. In questa chiave risulta paradigmatico anche l’uso di due diversi fotogrammi – uno per la locandina della mostra, l’altro per il catino absidale della chiesa/officina – dello stesso episodio del Decameron (1971) in cui Pasolini interpreta il “miglior discepolo di Giotto” intento ad affrescare una parete del napoletano Monastero di Santa Chiara e a conclusione del quale pronuncia “perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”. Il sogno può essere inteso dunque come fase di ideazione libera e sfrenata, di feconda sperimentazione e trasgressione dalle costrizioni che la messa in forma inevitabilmente impone. Ed è la mostra stessa a giocare sul doppio registro del finito/non finito: ad esempio percorrendo le sezioni che circondano la sala centrale a mo’ di cappelle radiali, si incontrano quella dedicata a Petrolio “il romanzo che non comincia”, testamento incompiuto uscito postumo, quelle dedicate ai film realizzati e però volutamente lasciati aperti – come nel caso del finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) – e quella dedicata al progetto mai realizzato di Porno-Teo-Kolossal che doveva concludersi con queste parole “Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà”.

Va aggiunto che l’aura di sacralità che in questo modo gli spazi museali assumono trova ragion d’essere anche nell’oscillazione propria delle opere di Pasolini tra sacro e profano, spirituale e mondano – tre delle sezioni appena citate sono state concepite come Gironi, rispettivamente delle Visioni, della Borghesia e della Televisione – oscillazione che risponde a un preciso modo di intendere il mondo, come lo stesso Pasolini ricorda in un’intervista fattagli da Enzo Biagi nel 1971: «ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione – in maniera sempre informe, diciamo così – non confessionale, in un certo qual modo religiosa, del mondo. Ecco perché investo di questo modo di vedere le cose anche le mie opere».

La mostra si conclude con una piccola sezione intitolata Pasolini è vivo (in cui sono presenti tra le altre opere due magnifici ritratti realizzati rispettivamente da Abbas Kiarostami e da Mario Schifano) e nel chiudersi rimette al centro la questione dell’eredità del pensiero dell’intellettuale bolognese lasciando allo spettatore la possibilità di riflettere sull’insita modernità di Pasolini nell’intendere e nell’incontrare il mondo, sulla sua poetica del non finito e del frammento, sulle modalità di elaborazione e di costruzione delle opere prima ancora che sui risultati, sull’idea prima ancora che sulla forma.

Autore: Daria Cusano
Pubblicato il 24/02/2016

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