Kunsthal Rotterdam / Keith Haring. The political line

L'inconfondibile forza visiva dell'artista americano mostrata attraverso la lente dell'impegno politico

Messa in scena originariamente nel 2013 a Parigi, la brillante retrospettiva dedicata a Keith Haring, dopo una vasta circuitazione su scala globale, è ancora visibile (fino ai primi di febbraio 2016) presso la celebre Kunsthal di Rotterdam, una delle prime e più celebri realizzazioni architettoniche di Rem Koolhaas.

La vasta esposizione, vista negli ampi locali del centro espositivo olandese, offre un’interessante occasione per ripercorrere una fase importante di trasformazione delle arti visive nel contesto storico dell’impetuoso boom economico e commerciale degli anni Ottanta, non restringendo però il punto di vista su semplici caratteristiche storiche e formali del pur vasto impegno artistico di Haring ma sottolineandone bensì il costante e crescente impegno di natura (interna ma pur profonda) “politica”.

È chiaro che volere ripensare un artista come Keith Haring (1958-1990) – piuttosto noto, ma spesso relegato ad un’immagine un po’ bozzettistica e apparentemente ripetitiva del lavoro artistico – necessita innanzitutto di poter avere sotto gli occhi una scelta quantomeno esaustiva, se non completa, della sua frenetica attività; data la ben nota prolificità si tratta di un compito non semplice: la mostra originariamente concepita a Parigi, infatti, si snodava lungo due vaste location (il Musée d’Art Moderne de la Ville e il centro Centquatre) radunando qualcosa come 250 lavori, fra cui pezzi letteralmente di enormi dimensioni, in parte ancora presenti nell’esposizione. Resta anche il fatto da ricordare che, in buona parte, Haring lavorava spesso in luoghi pubblici (a cominciare dalle celebri fermate della metropolitana di New York), su muri e spazi in esterno, dimensione questa oramai completamente irripetibile. E tutto questo è da tenere a mente nel volere riapprocciare questa dimensione più politica del suo impegno nell’arte, tenendo poi in particolare attenzione il crescente impegno dell’artista offerto nella causa dell’informazione (e raccolta fondi) per quella che fu la più spaventosa epidemia sviluppatasi fin dai primi anni Ottanta – ovvero il diffondersi dell’emergenza AIDS, per molti anni drammaticamente occultata e tenuta ai margini della società.

Nelle scelte artistiche rapidamente elaborate negli anni, Haring cominciò a concentrarsi su temi ricorrenti offrendo al contempo una critica serrata alle nozioni di razzismo, del capitalismo aggressivo e violento e a tutte quelle forme di ingiustizia, dall’apartheid ancora presente in tutti gli anni Ottanta in Sud Africa, ai ricorrenti timori dell’escalation del riarmo nucleare, fino alle forme di intolleranza (omofobia in primis) in seno alla società: in questo senso l’esposizione rimarca con notevole precisione una serie di interessi che, già emergenti nei primissimi lavori (cartacei) di quand’era ancora solo studente d’arte, si andranno sistematizzando in una vasta costellazione di immagini, simboli e sistemi di riferimento che la mostra giustamente mette in scena in rapporto alle preoccupazioni di carattere socio-politico dell’artista.

Immagine rimossa.

Due notazioni biografiche sono comunque utili per inquadrare il protagonista di questa carriera così rapida seppur intensa. Arrivando da un contesto provinciale (era nato a Reading, Pennsylvania e poi cresciuto a Kutztown, sempre in Pennsylvania), Keith Haring imprime una svolta decisiva alla sua vita decidendo di andare a New York City nel 1978, per frequentare la School of Visual Arts. Arrivare a New York in una fase storica come fra gli ultimi anni Settanta/primissimi Ottanta certo offrì al giovane aspirante artista un contesto di particolare vivacità ed energia: la vasta scena artistica Underground era in pieno fermento. Cinema, video, musica, moda, i cosiddetti Graffiti (che riempivano tutte le superfici delle vetture delle linee di metropolitana che dal Queens e dal Bronx si dirigevano a Manhattan) nonché una rinnovata curiosità per la figurazione e un immaginario desunto dalla pop-culture rimescolavano rapidamente tutto un vasto insieme di nuove discipline artistiche condivise da molti giovani artisti.

Ben presto Haring entra in contatto con altri artisti al tempo emergenti come Jean-Michel Basquiat e Kenny Scharf, personalità che, come lui, erano interessate a questo energetico, caotico e anche trasgressivo momento di nuove forme espressive che si diffondevano per i muri e le strade della grande metropoli, nonché nei club e negli spazi alternativi, situazioni dove la grande energia delle nuove musiche, della moda ed inevitabilmente anche dell’arte trovavano un singolare - seppur temporaneo - equilibrio dinamico. Haring però comincia ben presto a scegliere il tessuto della città stessa come vero e proprio supporto per suoi rapidi interventi, per lo più realizzati sulle carte nere che provvisoriamente coprivano le insegne pubblicitarie della metro, quando non affittate.

Proprio in tali situazioni emerge quel tocco inimitabile, quella capacità di resa figurativa fulminea e brillante nell’individuare con un gusto spiccato per linee continue, sinuose, una vera e propria capacità virtuosistica – che a quanto pare aveva già iniziato a sviluppare fin dall’adolescenza – che gli permetteva un’esecuzione rapida, davvero a sé stante, con una capacità di assorbire e riflettere un’immensa mole di sollecitazioni esterne (provenienti da moda, musica, stimoli urbani-metropolitani e molto altro ancora), trasformando il tutto in un linguaggio omogeneo, accattivante e di notevole presa visiva. Attraverso un metodo capace di inventare veri e propri pittogrammi (eseguiti quasi sempre attraverso un unico e continuo movimento di pennello o pennarello), questi segni diventavano sintesi ed immagini in codice per un vasto catalogo di presenze corporee (corpi umani o animali quali scimmie, cani o serpenti, dettagli anatomici come mani e falli) e tecnologiche (televisori, i primi computer, architetture semplificate) risultanti in moltissime altre presenze brillantemente stilizzate. La capacità poi di associarle ed inscriverle quasi sempre dentro figure geometriche – croci, onde, spirali, cuori – portava l’universo immaginativo dell’artista dentro una dimensione di forte e sostanziale capacità comunicativa, in cui anche le figure più ricorrenti (e comunque non leggibili esplicitamente in maniera univoca) – come il celeberrimo Radiant child – diventavano operazione immaginifica, e dove il costante processo di associazione e ricombinazione dei simboli crea sempre inedite letture di quelle complesse traiettorie che i grandi temi del desiderio, dell’amore, della giocosità (così come dell’oppressione, della violenza e della morte) possono produrre.

Nel volgere di pochi anni Haring aveva già conquistato una precisa identità artistica, riconoscibile eppure estremamente adattabile e media differenti, caratteristica che lo porterà a espandersi anche nell’installazione in spazi urbani, nella scultura, nel video d’animazione (e in infinite e molteplici reinterpretazioni attraverso il gigantesco mondo dei multipli).

In ultima analisi, è certo stato l’universo espansivo dei mass-media contemporanei che Haring fu in grado di riassorbire e metabolizzare, arrivando anche ad aprire un negozio che divenne di grande successo, il Pop Shop, aperto fin dal 1986, che ha conosciuto un crescente successo distribuendo su scala globale le immagini e i simboli da lui creati. In tale senso, l’esplicita fascinazione da lui subìta da Andy Warhol conosce uno sviluppo e un rilancio che non soltanto ben situano Haring nel novero degli artisti più creativi e brillanti di un decennio speciale, ma che lo hanno reso una figura quasi senza tempo, in grado di comunicare anche ad un livello di forte immediatezza, al di là dei tipici codici dell’arte contemporanea.

Trailer dell’esposizione: Keith Haring The political line

Autore: Francesco Bern…
Pubblicato il 26/01/2016

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