The Lost Themes of John Carpenter - La chiusura del cerchio

Anni Ottanta e ritorno, a partire dai dischi di John Carpenter una guida e riflessione per orientarsi nella nuova synthwave musicale.

Per la generazione di noi spettatori oggi ventenni o trentenni, capire cosa siano stati veramente gli anni Ottanta non è così facile come potrebbe sembrare; in termini di cinema, musica, letteratura, cultura pop, insomma: in termini di immaginario collettivo. Perché adesso è fin troppo facile ritrovarsi a che fare con prodotti come il Drive di Refn o la serie cult Stranger Things, per fare due esempi tra i più immediati, e pretendere di saperne riconoscere e (soprattutto) interpretare stilemi e influenze con la cognizione di causa necessaria. Il nostro è quindi uno sguardo necessariamente parziale, dettato da ragioni anagrafiche rigidissime e con le quali è impossibile mediare in maniera netta e radicale; però è vero anche che abbiamo la possibilità di ragionare a posteriori, guardando a un passato prossimo che le recenti mode e tendenze hanno trasformato in qualcosa di molto più vicino a noi di quanto si potesse sospettare, azzerando di fatto qualsiasi distanza temporale.

Quello che stanno facendo in molti, in ambito musicale e cinematografico (ma non solo) è appunto questo: rifarsi a quel decennio e a quell’immaginario; per cavalcare una moda, certo (attenzione a non negarlo), ma anche per indagare nel passato nel tentativo di individuare almeno alcune delle cause dei mali che affliggono il presente. Perché la loro origine risiede (anche) là, in quel tempo in cui tutto correva talmente alla svelta che nessuno sembrava preoccuparsi dello schianto che ne sarebbe conseguito, abbagliati com’erano da un’estetica luminosa fatta di luci al neon e superfici luccicanti.

E allora? Tanto vale perdersi in questo universo di suoni e immagini a 16 bit, ma almeno con l’intenzione di domandarsi veramente che cosa tutto ciò abbia significato. Ascoltare Lost Themes I e II rappresenta in qualche modo una chiusura del cerchio ideale, la colonna sonora soggettiva e personalissima di un percorso tutto interiore che (ci) porta a guardare indietro, a chiedersi cosa siamo (e cosa siano) stati, noi spettatori onnivori di un certo cinema che non può in alcun modo scindere dalla figura professionale di John Carpenter. Perché se amiamo quel cinema, le sue colonne sonore ci hanno accompagnato sempre, e sempre continueranno a farlo. Suoni e suggestioni che hanno caratterizzato e cambiato il modo di pensare all’horror, alla fantascienza, persino all’action; ovviamente non è stato merito soltanto di Carpenter (né soltanto dei Tangerine Dream, o di Giorgio Moroder, e così via), ma nell’ottica di questo lavoro i suoi due album “solisti” rappresentano davvero il punto di non ritorno di un immaginario, a prescindere dalla qualità oggettiva degli stessi. Gli score elettronici di molto cinema contemporaneo, di genere e non, provengono appunto direttamente da là, e chissà cosa sarebbe della produzione odierna di un Cliff Martinez se prima non ci fosse stato un Escape from New York Theme qualsiasi a fungere da modello ispiratore.

Non è il caso in questa sede di ripetere quali e quanti siano i titoli musicalmente influenzati dal nostro, perché il tutto si ridurrebbe a un banale elenco di film riconducibile a una qualsiasi ricerca su Google, da The Guest di Adam Wingard fino alle produzioni indie del giovanissimo Joe Begos (Almost Human, The Mind’s Eye), per citarne alcuni forse tra i meno noti al grande pubblico. Lo stesso dicasi per Kung Fury di David Sandberg, il mediometraggio di culto realizzato attraverso una campagna di crowdfunding su Kickstarter che ha riscosso un enorme successo tra i giovanissimi e i nostalgici (e non è difficile comprenderne i motivi). Ma, visto che se si parla dei due Lost Themes si parla soprattutto di musica, tanto vale snocciolare qualche nome e qualche artista che sta rappresentando degnamente il genere synthwave (o retrowave), così chiamato appunto in virtù dei richiami neanche troppo velati alle sonorità che hanno accompagnato gli eighties.

Nata nella seconda metà degli anni Duemila, la corrente ha registrato una vera e propria esplosione dopo l’uscita del film Drive nel 2011, grazie alle suggestioni sonore che Martinez e Kavinsky hanno riportato in auge con indubbio talento. Il francese Kavinsky rimane appunto uno dei nomi di punta del movimento, grazie a un disco come OutRun che racchiude al suo interno tutte le suggestioni sonore che si possono ricollegare ai film, alle musiche e ai videogiochi di trent’anni fa, rielaborandole però in versione moderna e personale.

Da qui, l’apoteosi: tra i fondamentali citiamo i Mitch Murder, The Valerie Collective, Electric Youth e Miami Nights 1984. Per gli appassionati di cinema più puramente di genere, però, il consiglio è (anche) quello di rivolgersi a gruppi più esplicitamente legati all’iconografia horror, come i californiani Dance with the Dead (soprattutto i dischi Out of Body, Near Dark, The Shape), i texani SURVIVE (due dei componenti sono Kyle Dixon and Michael Stein, gli autori della colonna sonora di Stranger Things), i francesi Perturbator (proprio di quest’anno è l’ottimo The Uncanny Valley) e, last but not least, gli italianissimi Confrontational con il loro notevole A Dance of Shadows del 2015.

Il tutto rigorosamente prima e dopo un attento ascolto e riesame di Lost Themes e Lost Temes II, per capire in che modo John Carpenter sia tornato a dire la sua a questi giovani ragazzi e adepti provenienti da tutto il mondo, dimostrando una freschezza compositiva che non ha nessuna intenzione di fare passi indietro di sorta.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 17/10/2016

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