Leopardi/Martone - Quando la carne dolorante genera il pensiero

Il corpo dell'intellettuale esposto nella sua fragilità ne Il giovane favoloso

Un busto storto, deformato, fragile; ossa friabili, struttura tremolante; in poche parole, un corpo infelice. La carne consumata di Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso è la vera protagonista del film di Mario Martone, e a prima vista ciò può apparire sospetto in un’opera che si prefigga di raccontare le vicende di un intelletto. In fondo proprio la caricatura dell’aspetto fisico del poeta ha gravato sulla considerazione in Italia del suo pensiero: prima del letterato e del filosofo è venuto il gobbo vergine, lo scherzo della natura sulla quale aveva potuto vendicarsi solo con minute descrizioni della sua crudeltà. Il pessimismo che gli viene generalmente attribuito è la cifra della comune lettura di una mente addolorata solo in quanto costretta in un corpo sofferente.

Perché allora insistere su questa deformità, riproponendo in egual misura l’immagine dell’uomo che vuol farsi poeta del dolore? La risposta sta nella natura metaforica insita nel Leopardi gibboso, nel messaggio che manda quel suo attraversare a stento il mondo, a guisa di un verso visivo. Ciò che afferma definisce il destino umano che nella sua carne si è già realizzato. Una visione di un corpo malato vs corpo sano è generata solo dall’illusione che l’uomo possa essere eterno: il poeta che si trascina per le strade testimonia esplicitamente qualcosa che è già presente nel suo dna. Tutto si distrugge, tutto si consuma, tutto muore, non vi sono fantasie di gloria, di immortalità spirituale che tengano. Ed ecco, in Martone Leopardi avanza e intorno a lui iniziano a mostrarsi anche nei suoi contemporanei fautori delle magnifiche sorti e progressive i germi della dissoluzione della materia che attende ogni essere vivente. La morte tocca la splendida e fiorente Silvia, ben più adatta di Giacomo a celebrare la meraviglia di un aspetto divino e pur tuttavia mortale, e destinata, anch’essa come la mite ginestra, a soccombere alla fine di tutte le cose. Si diffonde il colera, i tessuti imputridiscono, e la natura, in forma di un vulcano in eruzione, rivendica il proprio potere sui suoi figli. L’unica cosa che conta è che la vita si perpetui, non importa quanta morte e dolore possano succedersi nel mezzo.

Così, il Leopardi martoriano – e martoriato - che si muove ne Il giovane favoloso è l’esibizione di corpo consumato come dimostrazione concreta dei processi di creazione e distruzione, processi che riguardano chiunque, e che pertanto confutano ogni idea di un intelletto influenzato dal proprio stato fisico, se non nella medesima misura in cui si prefigura il comune destino mortale delle nostri carni. I lazzi, le caricature e gli scherni sembrano allora forme di esorcismo verso la verità, tendenza comprensibile in un sistema culturale solito a preferire l’evasione dalla realtà a una sua analisi imparziale. Ma se non è condivisibile una visione della natura come madre crudele, considerarne l’oggettiva indifferenza basta a scatenare lo smarrimento che, generando il dubbio, definisce l’irrinunciabile onestà del pensiero umano.

L’idea che l’intellettuale abdichi all’interesse per il proprio corpo è figlia del concetto miope che vede la mente e il cervello come due fattori distinti, come se il pensiero non potesse rivolgersi all’involucro che lo contiene. Dunque in Martone si opera un’unione corpo/intelligenza che prescinde da facili semplificazioni manichee, e fa della carne non il capro espiatorio - nella popolare lettura di Leopardi come fautore del materialismo perché personalmente infelice - quanto il mezzo con cui la natura rivela all’uomo il suo stato. La figura consunta allora è nuda verità che altri corpi incarneranno solo più tardi o più lentamente, quando arriverà la malattia, l’usura, e infine la rovina. Rivolgersi a lei con sguardo obiettivo o preferirvi gli scongiuri è ciò che rimane da scegliere: e il poeta innalza il proprio occhio mentale sopra le private sventure, nella scena cardine del film in cui ribatte ai rimproveri di puerile rodimento rivendicando un leale contraddittorio.

Ma è soprattutto la rivendicazione corporea dell’intellettuale l’oggetto più innovativo de Il giovane favoloso, nella rappresentazione di un raziocinio astratto che però mantiene saldo il contatto con la concretezza materiale del suo essere, e in essa scopre la base delle sue speculazioni teoriche attorno la realtà. Anzi, a ribaltare i rimproveri di una vaghezza mentale quasi trasognata, interviene la perfetta consapevolezza dello scheletro e dei muscoli in cui abita l’individuo. È forse anzi più facile per l’uomo cosiddetto pragmatico dimenticare il proprio corpo, smettendo di sentirlo, che per una personalità celebrale, poiché questa analizza ogni esperienza cognitiva dai ragionamenti ai segnali fisici. La morte del proprio pensiero passa per la morte carnale, e lo spirito deve prima o poi confrontarsi con il sistema che lo sorregge, e verificare i limiti della mente rispetto a un naturale materialismo distruttivo e irreversibile.

Appurato quanto concerne riguardo questo stato delle cose, ciò che rimane è il pensiero stesso, e la sua libertà chiusa entro i confini di una gabbia corporea ma infinita come il pieno ragionare a partire dalle sensazioni che i sensi stessi filtravano da occhi, naso, orecchie, bocca, costantemente interrogati su ciò che offriva la natura. E lo sguardo filmico che ne raffigura la parola allora si libra oltre sopra la siepe (L’Infinito) e sopra le stelle, nella notte, fino a raggiungere l’universo (La ginestra). Giacomo Leopardi lascia in eredità questo essere nel mondo pienamente vissuto, ritrovandovi quella verità universale che guida l’esistenza nel suo spirito e nella sua carne: l’intelletto che non fa esperienza della propria pelle, accettandone la concretezza e la mortalità, non può sperare di comprendere almeno in parte il senso della sua vita.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 29/10/2014

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