The Leisure Seeker

Ancora una commedia on the road per Virzì, che dirige il suo primo film internazionale ambientato negli States.

Dopo le dolci follie delle sue Thelma e Louise, tanto applaudite alla Quinzaine dello scorso anno ne La pazza gioia, Paolo Virzì sbarca in concorso a Venezia con Ella & John (The Leisure Seeker, suo primo film internazionale, trasferendosi dalla luminosa costa della Versilia alla east cost americana e scritturando due attori del calibro di Donald Sutherland ed Helen Mirren.

Quella che per le giovani Beatrice e Donatella era la voglia di evadere dal centro di recupero per donne affette da disturbi mentali in cui erano state confinate, in cerca di un’ora di pienezza e libertà a bordo di una decappottabile rossa, diventa qui il lento viaggio di una coppia di anziani sulle quattro ruote di un vecchio Winnebago Indian anni ’70 lungo la Route 1, diretti verso la casa-museo di Ernest Hemingway.

Un “leisure seeking”, appunto, come suggerisce l’azzeccatissimo titolo inglese, lento e disimpegnato, la pura ricerca di un tempo che sia realmente libero, disoccupato, personale, disinteressato; un ozium da reinvestire per conoscersi ancora meglio, un tempo restituito al tempo, in cui far emergere l’essere in tutta la sua vocazione, in tutte le sue discrepanze, in cui visitare anche le sue stanze più segrete. Ed esorcizzare le fobie più resistenti, quelle che ci accompagnano fino alla fine e che, in prossimità dell’addio alla vita terrena, si fanno ancora più insistenti e terrificanti. E quale paura più grande può esserci per un anziano di quella di poter finire in un ospizio (un human warehouse, un magazzino per esseri umani, come si dice nel film), di perdere autonomia ed indipendenza, il lume della ragione, la capacità di espletare anche le faccende più semplici, finanche la dignità.

Di nuovo una fuga, dunque; dalla spersonalizzazione del logorio quotidiano, da ogni àncora e presa, persino dalle premure comprensibili e amorevoli – ma allo stesso tempo coercitive e vincolanti – dei propri cari. Un allontanamento da tutto e tutti, reso – anche qui – incauto e pericoloso dalle precarie condizioni di salute in cui versano i due protagonisti.

John è un ex professore di letteratura inglese con qualche problema di memoria ma che non perde occasione per mostrare la sua profonda ammirazione per l’opera dell’amato Hemingway (ma anche per Joyce) a tutte le cameriere che incontra. Ella è la moglie grintosa senza cui il marito finirebbe per non ricordare neanche se stesso, una donna forte, paziente ed intraprendente, decisa ad imbarcarsi con il compagno di sempre per quello che sarà – lo si capisce fin dall’inizio – il loro ultimo viaggio. Una scelta avventurosa che gli permetterà di godere del presente e, soprattutto, di rivivere le gioie di una intera vita trascorsa insieme che di giorno in giorno svanisce sempre più nella mente di lui, resistendo, invece, nel ricordo di lei e nelle diapositive che la sera proiettano fuori dal loro camper.

Ma il viaggio porterà con sé anche la scoperta di un’amara verità, taciuta per 48 anni, e una serie di piccoli spassosissimi incidenti ed imprevisti, da un goffo tentativo di rapina operato da due sgrammaticati ladruncoli cui l’ex docente consiglia una scuola serale (sventato da Ella grazie alla propria astuzia e ad un fucile irragionevolmente trasportato nel camper) ad una manifestazione di alcuni simpatizzanti di Trump (un elemento, quello politico, su cui Virzì avrebbe voluto insistere, forse prevedendo l’esito elettorale, desistendo poi su consiglio degli sceneggiatori), fino al rischio di essere arrestati per guida pericolosa per via di una Coca-cola aperta malamente e di una sbandata. E mentre loro viaggiano, parlano, mostrano la propria splendida umanità, lo spettatore impara a conoscerli, ad affezionarvisi, ad amarli – come spesso avviene nei film del regista di Ovosodo, che fa un cinema quasi esclusivamente imperniato sull’universo emotivo dei propri personaggi e sull’empatia. E a sorvolare, così, con più disponibilità su una certa edulcorazione della realtà, indubbiamente consapevole e ponderata, che può diventare indigesta se applicata su temi delicati come la malattia, l’invecchiamento, il fine vita. Oltre che su uno script per lo più già visto e altamente prevedibile.

La verità è che a Virzì (e ai suoi sceneggiatori Francesco Piccolo e Francesca Archibugi) non interessa restituire un quadro realistico delle nostre tribolazioni esistenziali, né innovare la produzione artistico-audiovisiva che verte su tematiche simili a quelle affrontate da The Leisure Seeker. Il pubblico sa già quante sofferenze possano arrecare un corpo e una mente in disfacimento, a se stessi e ai propri cari. Piuttosto, così come già avveniva in La pazza gioia, dove l’elemento socio-sanitario della malattia mentale veniva utilizzato in un’ottica narrativa e non didascalica, il tema dell’invecchiamento e della morte diventa occasione per mettere in moto il racconto e i suoi protagonisti, per metterli dinanzi a delle scelte da cui se ne desumerà la personalità, quel bagaglio di esperienze e sentimenti che li rende così unici e, al contempo, così vicini a coloro che li osservano dall’altra parte dello schermo.

In quest’ottica il contesto diventa allora semplice pretesto per far emergere, in tutta la sua forza, quanto basta: ovvero l’umanità – o la disumanità, come invece in Il capitale umano – delle persone. Per metterne a nudo le aspirazioni più profonde, le paure, i turbamenti. Rinunciando, con saggezza, all’assurda, ricorrente pretesa che si debba sempre graffiare, ridicolizzare o satireggiare, prendere a schiaffi qualcosa, in nome di un ossequio, visto come ineluttabile, alla mordacità della sempre scomodata commedia all’italiana, di cui il regista livornese è costretto a portare addosso il pesante fardello.

The Leasure Seeker, allora, non è altro che il frutto dello sguardo pudico e rispettoso di un regista che porta con successo la propria sensibilità, il proprio umorismo e il proprio modo di concepire il cinema e la vita al di fuori dei confini nazionali, sfidando il cinema americano in casa e nel resto del mercato mondiale solitamente soggetto al suo predominio (il film è stato comprato da ben 90 paesi) grazie ad una storia semplice e altamente godibile e a due star d’eccezione. Qualcosa che per il cinema di casa nostra, da decenni ormai alla ricerca di un respiro più internazionale, non può che essere un vero toccasana.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 04/09/2017

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