Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Martin McDonagh si muove abilmente tra vari generi regalando un dramma sulla possibilità di redenzione nonostante il male imperante.

In piena notte, in un paesino della provincia profonda del Missouri, vengono affissi degli avvisi su tre cartelloni pubblicitari posti sul ciglio di una strada secondaria. La tranquillità della dormiente cittadina viene sconvolta da un gesto che pone nuovamente sotto l’attenzione popolare un omicidio avvenuto mesi prima, quando la diciottenne Angela veniva violentata e barbaramente uccisa. Da allora la madre Mildred Hayes non è mai riuscita a darsi pace. Decide così, di punto in bianco, di sollecitare la polizia ad indagare e a trovare il colpevole tramite una serie di azioni e controazioni che assumeranno sempre più i caratteri di una piccola guerra civile tra fazioni cittadine opposte.

Sono alcuni tra i volti più celebrati del cinema americano recente ad interpretare i personaggi dell’ultimo dramma di Martin McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Anzitutto Frances McDormand, che torna alle atmosfere di Fargo e porta in scena il dolore di una donna che ha perso la figlia e che ha visto inficiata la speranza che la giustizia, rappresentata da poliziotti razzisti e dai metodi superficiali, riesca a fare il suo corso. I conflitti che animano la vita della popolazione sono incarnati dai continui battibecchi tra Mildred e l’agente Jason Dixon (Sam Rockwell), probabilmente vero cuore pulsante del film, antieroe verso cui il regista non calca mai la mano ma che è sempre pronto a sfiorare con delicatezza, concedendogli una seconda chance. Il corpo di polizia è guidato dal rispettato sceriffo Whillougby, un Woody Harrelson dallo sguardo spiritato, tornato alle atmosfere poliziesche dopo la prima stagione di True Detective. I rancori individuali e le continue liti, che hanno trovato nel gesto di Mildred la propria detonazione, diventano emblematici di una situazione universale: ogni oggetto presente in scena apre lo sguardo su dolorosi eventi avvenuti nel passato, su sensi di colpa e rimpianti mai perdonati, caricando l’ambiente di un valore che rende oggettiva la presenza di suddetti sentimenti.

Questo terzo film di McDonagh è un vivace frullato di generi che regala dialoghi scoppiettanti e scambi in cui il dolore dei personaggi esce dal guscio di protezione all’interno del quale era stato rinchiuso. Il rancore, tuttavia, pur essendo manifesto non è mai totale ma segnato da continui gesti di solidarietà: sguardi di intesa e lievi accenni che rendono i personaggi meno lontani tra loro, deboli ed inadeguati come la società in cui vivono ma comunque alla ricerca di un riscatto, lungo un percorso che, lentamente, accompagna lo spettatore verso un nuovo probabile mondo.

Nonostante sia un male banale a farla da padrone e a catalizzare lo sviluppo della drammaturgia, il film, a costo di sacrifici dolorosi, concede ai suoi personaggi la possibilità della speranza e del bene, che si insinuano in dialoghi e traiettorie dello sguardo. Non tutto è perduto. A volte basta un semplice gesto a fare in modo che il bene si lasci alle spalle l’oceano di male in cui rischia perennemente di annegare. Grazie a gesti e azioni che riecheggiano la struttura tragica senza dimenticare la componente popolare del grande cinema americano classico.

«Dopo che è morto mio padre ho fatto due sogni su di lui […] Io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. […] Lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. […] E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo».

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 06/09/2017

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