Il nemico invisibile

Ghost story sui fantasmi del reale, della mente e del cinema: lo sguardo di Paul Schrader s’insinua perfino all’interno di un’opera disconosciuta.

Di film rimontati, disconosciuti dai propri padri, plasmati e traditi a seconda di esigenze produttive, è puntellata l’intera storia della settima arte. Si potrebbe quasi tentare una (contro)storia del cinema composta di freaks, opere mutanti e rimaneggiate, orfani alla ricerca del proprio autore.

L’ultimo mostro di questa serie interminabile di titoli è Il nemico invisibile, diretto dal maestro della New Hollywood Paul Schrader. Il regista, i protagonisti Nicolas Cage, Anton Yelchin e il produttore esecutivo Nicolas Winding Refn hanno rinnegato il film a causa di un radicale rimontaggio operato dalla produzione.

Più interessato alle esigenze di mercato che allo sguardo di un ex calvinista nauseato dei canyons hollywoodiani, il final cut della produzione ha fatto leva sul genere, costruendo un revenge movie in continua crisi identitaria. Eppure, se si vuole vedere sotto la superficie, se s’intende per critica cinematografica l’inesauribile processo di scavo nel terreno filmico, allora bisogna lavorare l’immagine, bisogna farla reagire.

Vedendo Il nemico invisibile ci si rende conto di come Paul Schrader alla fine abbia operato - sorprendentemente, forse perfino involontariamente - un ennesimo scacco matto all’industria hollywoodiana. Il tema della malattia – centrale all’interno dell’opera schraderiana – finisce per contaminare tutto il film. Una voce che si voleva edulcorare, uno sguardo che si tentava di frenare, ha diffuso le sue metastasi per l’intera durata dell’opera, dialogando con tutto il corpus del regista. Nelle profondità di un’immagine palesemente color corretta, lontana dalle vitree oscurità schraderiane, la folle materia grigia del regista si fa incontrollabile, cancerogena, pronta a scavalcare qualsiasi corpo produttivo.

La libertà di Schrader, il suo senso dell’uomo e del mondo, la sua idea “sacra” di una follia al di là di ogni morale, finisce per abbattere tutto il resto. Questo sguardo potente e destabilizzante, nonostante gli sia stato praticamente scippato il film, finisce per insinuarsi frame dopo frame, ribaltando - ancora una volta - ogni previsione. Perché Schrader ha sempre lavorato su linee di forza, su corpi che si attraggono come calamite, su pulsioni mentali e fisiche autodistruttive come nello scorsesiano Al di là della vita (che, guarda caso, vedeva sempre Cage nel ruolo del protagonista).

Ecco dunque che Il nemico invisibile si trasforma in una ghost story che contagia ogni livello del film. Il titolo originale, molto più caustico di quello italiano, è Dying of the Light. Crepuscolo, fine del giorno, apocalisse della coscienza, istante dell’oblio. Da un punto di vista extrafilmico, il fantasma del film altri non è che Paul Schrader stesso. Da un punto di vista strettamente narrativo, il fantasma di Evan Lake non può che essere il suo passato. Lake è un agente della CIA che, dopo esser stato torturato da un fondamentalista musulmano, architetta per ventidue anni la propria vendetta.

Il regolamento dei conti nei confronti di un uomo invisibile e dato per morto trova il suo climax nella scena madre del film: un dialogo dove la follia schraderiana bypassa i generi, dove la vendetta viene momentaneamente annullata, sviata, traslata. Sono entrambi fantasmi destinati a scomparire per sempre: la mente di Lake è sconvolta da una grave forma di demenze senile; il fisico di Banir, l’uomo invisibile, è gravato da una talassemia che lo confina in casa. Questi corpi abitati, manovrati, governati da virus inestirpabili, svelano tutti i patetismi, tutte le debolezze, tutta la caducità di ogni moderno cowboy.

Lontano dalle accuse fuorvianti che farebbero del film un manifesto del Partito Repubblicano, Il nemico invisibile affianca invece due uomini che, in uno sguardo, riconoscono e condividono lo stesso male. Che è un male di vivere prima di tutto, nella consapevolezza che il vero nemico invisibile altri non sia che la propria stessa persona (in un certo senso uccidere l’altro significa uccidere se stessi, come avveniva nello scontro tra cecchini di American Sniper di Clint Eastwood).

L’ossessione che incendia il cervello di Lake lo porta ai margini di una deriva psichica. La mente si obnubila, lo sguardo si oscura, la memoria dimentica tutto eccetto la propria nemesi: Lake procede con far autistico in ogni fase della sua vendetta, fino a cadere in un impasse che sfugge ai confini del genere. In questo blocco si trova tutto il senso del film (senso che, nonostante il final cut differente, è così intrinsecamente, visceralmente schraderiano da essere inviolabile). Il tema della memoria e quello dell\'oblio non possono che rinnescare un undici settembre tutto interiore, dove l’unica risposta alla rabbia e al dolore è la malattia mentale o fisica.

Tutto questo permane, nonostante ritmi posticci da action-thriller rimaneggiato, nonostante tempi forzatamente adrenalinici che mal dialogano con il pensiero schraderiano. Rimane, ancora una volta, lo sguardo disturbante di chi ha superato qualsiasi linea e si erge sul gorgo di un nichilismo dolorosissimo.

Tra le ceneri della CIA e le rovine della patria, nel crollo di un intero sistema di valori, Schrader racconta, ancora una volta, il tramonto del vecchio uomo completamente fuori posto nello scenario politico odierno. Il giustiziere d\'altri tempi che arranca tra le tenebre del mondo alla ricerca forsennata di una nuova legge, di un nuovo ordine morale, ma si perde nella sua stessa psiche infetta. E il male, topos del cinema schraderiano, si diffonde ereditariamente, senza lasciare scampo, come fosse una maledizione familiare.

Poco prima del finale del film assistiamo a una serie di inquadrature fisse su delle lapidi e immediatamente vengono in mente i cinema chiusi e in rovina di The Canyons. Allora, per un istante, s’insinua il sospetto vertiginoso e affascinantissimo che i due film possano specchiarsi uno nell’altro: dalla politica USA ai canyons di Hollywood, dai nuovi linguaggi virtuali a un cinema classico che ha perso le coordinate, che non sa più - perché non può sapere - chi è ancora buono o chi è ancora cattivo - o, ancora, se ci siano mai stati buoni o cattivi. Un cinema schizofrenico, disconosciuto, crudele e mutante, in perenne crisi identitaria. Non un aborto, sia chiaro, ma il tentativo fallito di eclissare e standardizzare un autore incrollabile. Un film di Schrader che non è un film di Schrader ma lo è necessariamente, completamente, inevitabilmente. Proprio per questo Il nemico invisibile, ne siamo certi, al di là degli evidenti difetti - o forse proprio grazie a quelli - diventerà un testo filmico necessario per chiunque voglia affacciarsi allo studio del regista.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 09/07/2015

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