Downsizing

Il progetto più ambizioso di Alexander Payne è anche quello che conferma tutti i limiti del suo sguardo.

Di corpi che si restringono e di proporzioni alterate è piena la storia del cinema. D’altronde si è sempre trattato di consegnare allo spettatore una prospettiva diversa, ponendo un conflitto decisivo, innaturale e rischiosissimo, fra corpo e spazio. Non c’è nulla di più cinematografico del ridimensionamento - dalle rêveries di Meliés al rimpicciolimento progressivo di Radiazioni BX: Distruzione uomo - proprio perché al cinema, da sempre, le dimensioni contano. Dalle lunghezze focali alle scale dei piani, dai grandi schermi sempre più larghi ai piccoli schermi ormai in formato tascabile, l’intera storia del cinema è una storia di nani e di giganti.

Sulla carta, Downsizing aveva tutte le premesse per essere il titolo più obliquo e interessante di Alexander Payne, perché, abbandonati road movies e stanche dinamiche familiari, finalmente il regista si affacciava a un soggetto letteralmente fuori formato. E il film parte proprio così: come una favola ambientalista, come il sogno di un mondo che risolve i problemi di inquinamento, di consumo energetico, di sovrappopolazione, rimpicciolendo in maniera irreversibile le dimensioni del corpo umano. Ma ben presto, come da programma, l’utopia si rovescia in distopia, i problemi etici vengono alla ribalta, fino all’asserzione certa, irrevocabile, che perfino in un mondo perfetto esisteranno ricchi e poveri, felici e infelici, separati da un grande muro trumpiano.

È tutto già scritto prima ancora di essere visto, pronto a divertire, a prendersi sul serio e, un attimo dopo, a strizzare l’occhio come per dire: va tutto bene. Ma, come se non bastasse, c’è un altro film che nasce appena dietro l’angolo: l’ambiente si vendica, la natura vuole prendere di nuovo il sopravvento mentre una piccola setta di rimpiccioliti in Norvegia fabbrica una nuova arca di Noè per sfuggire all’Apocalisse. E, ovviamente, non dimenticate le storie d’amore e di solitudine, il buon Matt Damon che soffre, cade e rinasce, Christoph Waltz che gigioneggia alla ricerca di nuovo piccoli, grandi capitali, il tutto condito dalla chiosa un tantino buonista sull’importanza del prendersi cura dell’altro. E così via.

Ci sono tre, quattro, forse cinque film all’interno di Downsizing e alla fine non se ne riesce più a vedere nemmeno uno. Ma non si tratta solo di decentramento, non si tratta di un’opera che si traveste e si reincarna a ogni cambio di sequenza, si tratta di un film che non sa che strada prendere e tenta, disperatamente, di aggrapparsi a tutto pur di ritrovare la via di casa. È un problema identitario, perché la commedia fantastica va a braccetto con la satira ambientalista a patto che ci sia un attimo, almeno un attimo, da dedicare ai propri personaggi e alla loro realtà. Un attimo, almeno un attimo, per costruire un po’ di cinema.

Invece il titolo, Downsizing, non è altro che l’espediente di un film che gioca di accumulo evitando però il brio, la vitalità del parossismo, quasi più interessato alle conseguenze del rimpicciolimento che all’uomo da rimpicciolire (basti pensare al modo spietato in cui Payne fa sparire l’improbabile personaggio della moglie).

Che cosa vuole dirci allora il film di Payne? Quello che si intravede, dopo ogni ellissi, sono i film che Downsizing avrebbe potuto essere. E lì la mente parte alla ricerca di altri film, di altre suggestioni, o semplicemente delle emozioni che coglie dietro gli occhi languidi di Matt Damon – che, va detto, insieme a Tom Hanks rimane l’unico uomo qualunque del cinema americano, quasi un volto alla Frank Capra.

Di Downsizing, dunque, ci innamoriamo delle potenzialità del racconto, di ciò che non vediamo eppure cerchiamo con ogni sforzo di trovare. Del film che non abbiamo visto, ed è qui tutta la frustrazione.

Del resto ci sembra incredibile che in un’opera sulla trasformazione fisica manchi completamente il corpo, lo specchio, qualsiasi ipotesi di riconoscimento o, peggio, di estraneità. Un trauma somatico, o almeno psichico, prima ancora che relazionale. Succede invece che più andiamo avanti più ci dimentichiamo che Matt Damon sia alto dodici centimetri: nessun lavoro sullo spazio, sulla percezione di un ambiente gigantesco ed ostile, sulla natura, sugli animali. Perfino tra le montagne norvegesi, dove si sognerebbe un tremore primordiale, un senso di grandezza o di vertigine, o al massimo un accenno di brivido verticale, non percepiamo mai un’alterazione prospettica, uno shock di proporzioni. No, tutti sono occupati a parlare, parlare, parlare. E alla fine il film scivola via con loro, invisibile agli occhi e al cuore: ecco come il progetto più ambizioso di Alexander Payne si rivela quello che più conferma tutti i limiti del suo sguardo.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 30/08/2017

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