Speciale Oriente #5 / Outrage: Coda

Straziante commiato di Beat Takeshi che allestisce un ultimo atto di rivolta contro il potere stabilito, la lettera morta, l’abisso della burocrazia.

Già da Outrage: Beyond il personaggio di Otomo (Takeshi Kitano) si aggirava come lo spettro della yakuza che fu, il gangster fuori moda fedele agli antichi valori, un tempo sacri, della criminalità organizzata. Era una cellula impazzita che faceva saltare in aria meccanismi di potere, alleanze politiche, scartoffie aziendali.

In Outrage: Coda, Otomo continua a ricoprire il ruolo del giustiziere fieramente fuori tempo massimo, del vecchio yakuza che fa detonare le strutture codificate del potere stabilito. Ritorna, forse per l’ultima volta.

Quest’ultimo tassello della trilogia si scioglie infatti nella malinconia di un crepuscolo. Tra i tempi lenti della burocrazia, si insinua il canto del cigno di quel Beat Takeshi che è ed è stato uno dei nostri grandi amori cinefili. Il tempo passa anche per lui, il mondo cambia, eppure Kitano è sempre lo stesso: l’icona che non può essere catturata, inafferrabile, lontana da qualsiasi compromesso, completamente avulsa dagli ingranaggi del potere. Pericolosa. Appena un fremito di tristezza fa vibrare quel volto impassibile, quegli occhi che elargiscono la geografia emotiva di un intero immaginario sentimentale.

Outrage: Coda è un film stupefacente per come mostra un mondo affogato nella prassi, la tediosa quotidianità dove non c’è più posto per grandi emozioni o dita tagliate. Un mondo che implode nella stasi della forma, nel mare di parole che umiliano qualsiasi possibilità di azione, nella reiterazione di una regola svuotata di pathos. Il clan yakuza degli Hanabishi è ormai prigioniero delle briglie economiche di un capitalismo sfrenato e invincibile. La burocrazia ha ucciso tutto il divertimento e lo yakuza è divenuto un banale impiegato che timbra il cartellino. Un posto di lavoro un po’ pericoloso ma in fondo sufficiente a sbarcare il lunario. Dimenticatevi il glorioso passato dei temuti Hanabishi, ormai c’è posto solo per le lettere morte, per i riti svuotati di qualsivoglia vitalità.

Siamo oltre la fine delle idee, oltre la morte della morale, smarriti in un sistema che ha perduto la propria identità. Questa yakuza si fa espressione economica di un materialismo che ha vinto il mondo intero, affossando gli antichi valori del rispetto e della famiglia. Outrage: Coda parla proprio di questo, di affetti perduti e di ultimi fuochi. Quella di Otomo allora non può che essere una vendetta, il duello finale di chi non ha più nulla da perdere. Si tratta di un duplice gesto politico: da una parte la strage di Otomo, dall’altra quella di Kitano nei confronti di un mondo – il cinema – incapace di trovare la sua linfa vitale, dimentica della propria umanità per le esigenze di un’industria che fabbrica film alla stregua di prodotti seriali. Questo atto di rivolta non poteva essere più esplosivo: nell’immersione sfiancante di un film parlato, nei complotti e nell’inerzia di un falso movimento, Beat Takeshi è l’anomalia venuta dal passato, il giustiziere che dichiara guerra a tutti, che non ci sta. Lo yakuza fantasma torna dunque in tutto il suo splendore e fa saltare le teste – sebbene sappia che presto dovrà essere imprudente, che presto anche lui dovrà scomparire.

Se tutta la prima parte del film si impegna a creare un intero meccanismo di accordi, una scacchiera di ruoli e posizioni ben definite, la seconda irrompe con forza prorompente, facendo crollare questo squallido microcosmo: le logiche abiette del clan si sbriciolano nei tempi rapidi di una raffica di pallottole; la testa del dirigente sbuca dal terreno e rimane schiacciata dalle ruote di un’automobile; il giovane yakuza tutto dedito ai piaceri della carne viene ucciso sul letto della sua stessa lussuria. La furia di Kitano è pari solo al suo umorismo spietato ma umanissimo. Ma si tratta di un lungo addio (in questo modo si potrebbe del resto leggere l’intera trilogia): Beat Takeshi – Dio quanto gli vogliamo bene! - sa che ormai il Giappone non è un paese per vecchi, sa di essere un guerriero solitario in un mondo che ha dimenticato l’umano. E allora inscena il proprio suicidio, l’addio alle armi che dilania il cuore.

Certo, sappiamo bene che Otomo non può essere ucciso: era già resuscitato in Outrage: Beyond. Ma questa volta rifiuta di essere assassinato, si sacrifica lui stesso. Fa il gesto ultimo, straziante e definitivo: pistola alla gola e colpo netto. Un addio che si scioglie nel primo piano del vecchio yakuza che conclude il film avvertendo un vuoto, una mancanza, una perdita troppo dolorosa da accettare. Durante i titoli di coda, poi, l’amico di Otomo sta pescando e il pesce abbocca. Allora realizziamo una volta per tutte che Beat Takeshi è morto. E in questo vuoto viene da pensare, come in un fermo immagine della mente, al suo sorriso in Sonatine.

E crediamo - o ci piace farlo - che Kitano torni a vivere in un’altra estate, quella del cinema che fu, quella dei vecchi film di cui parla anche John Woo in Manhunt: come un fuoco d’artificio che inumidisce gli occhi e scalda i nostri cuori. Pare che la yakuza sia ormai storia passata, si potrà solo ricominciare, come già si vocifera, da una storia d’amore.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 09/09/2017

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