Confessions

Un mondo che è al tempo stesso crocevia di generi e stilemi, e rigorosa e oscura cattedrale formale.

I primi minuti di Confessions, distribuito in Italia dalla coraggiosa Tucker Film, hanno il sapore di un rito iniziatico, una discesa nell’oscurità più profonda dell’animo umano e del suo specchio cinematografico. L’uso sistematico del ralenti, la ritualità ritmica del montaggio e la pregnanza dei gesti hanno una forte impronta auratica e risucchiano lo spettatore in un incubo dove tutto è già passato, esaurito, cristallizzato.

Le immagini ci introducono al dramma di Yuko Moriguchi, giovane insegnante di una indomabile classe di quindicenni, che ha recentemente perso la sua bambina. Yuko ha scoperto che la morte, avvenuta nella piscina scolastica, non fu un incidente ma un omicidio in piena regola. I colpevoli sono due studenti della sua classe. La giovane donna è consapevole che la crudeltà dei due ragazzini non potrà essere punita adeguatamente per vie legali e sceglie di ricorrere a ben altri mezzi per fare “giustizia”. L’ultimo giorno di scuola, durante il discorso finale alla classe, Yuko denuncia i due studenti, senza rivelare i loro nomi; ma la classe ha capito, ed è quanto basta per dare inizio a una vendetta di rara crudeltà. Sia chiaro che al regista Nakashima Tetsuya non interessa la tensione del mistero che caratterizzava il romanzo (la sceneggiatura è tratta da un mistery di Kanae Minato), e infatti l’opera rinuncia ben presto alla tentazione del whodunit e mostra i volti dei due giovani assassini dopo pochi minuti. All’autore, già noto al pubblico occidentale per titoli come Kamikaze Girls e Memories of Matsuko, interessa di più concentrarsi sui personaggi coinvolti nella tragedia e sulle possibilità estetiche dei loro traumi e rivolgimenti psicologici.

Confessioni, appunto: la confessione della giovane maestra, distrutta dal dolore e perciò del tutto priva di vita e di umanità; dei due studenti, personaggi la cui enigmaticità permette al regista un gioco di inganni che mette constantemente in discussione le aspettative dello spettatore; di una madre disperata, che assiste impotente alla follia del figlio. Ma lo stile di Nakashima è straniante, una anestetica del cinema in piena regola che rimanda al video musicale o allo spot pubblicitario fatto di fotografie perfette, ralenti onnipervasivi e carrelli ortogonali che ordinano e allontanano il caos. La materia del reale è tenuta a debita distanza, quasi a sfidare lo spettatore a trovare uno spiraglio nel velo di Maya di uno Spettacolo che, debordianamente, sostituisce la realtà e configura i rapporti tra esseri umani come rapporti tra immagini, simulacri. Immagini che avvolgono e soffocano; una trappola senza uscita.

La stessa protagonista (Takako Matsu), come fa notare Mark Schilling su Japan Times, ricorda molto da vicino i fantasmi incarnati in corpo di donna che caratterizzano molto del j-horror contemporaneo: Yuko non sfigurerebbe affatto in un film di Hideo Nakata, con la sua pelle bianchissima e l’espressione di una maschera mortuaria o teatrale. Mentre uno dei due assassini, lo studente-inventore geniale e asociale, è erede diretto dell’iconografia e dell’immaginario culturale del manga. Ancora una sfida per lo spettatore: l’oggetto filmico in questione è levigato ma scivoloso, refrattario a generi e convenzioni, o meglio crea un mondo che è al tempo stesso crocevia di generi e stilemi e rigorosa e oscura cattedrale formale. Nakashima, in Confessions, si prende gioco ancora una volta, e con gusto, delle cosiddette modalità “giuste” per trasporre sul grande schermo la tragedia e il dolore.

Nonostante la trama sia debole e ricca di incoerenze, il provocatorio esperimento di Nakashima sembra riuscito nella misura in cui lo si intende come uno studio delle tessiture e delle superfici dell’immagine. La ricerca dell’autore è tutta fatta di luci e ombre, forme e gesti, incubi struggenti e sublimi distanze. Nakashima traduce la narrazione del romanzo in immagini perfette e perennemente ricondotte al flusso di coscienza dei protagonisti, integrando due approcci diversi e complementari degli studi teorici sull’adattamento intermediale. Alcune scelte possono dividere, come quella di fare un uso estetico e drammaturgico del trauma, elemento irrapresentabile per eccellenza e interrogativo inesauribile della rappresentazione artistica, cinematografica e non. Forse si può parlare di irresponsabilità e superficialità (vera) in questo senso. Ma il film resiste a queste riflessioni e razionalizzazioni a posteriori: è un oggetto opaco, indefinibile, che resiste a discorsi ed ermeneutiche. Confessions è un film che divide e lacera nel profondo lo spettatore consapevole, costretto a fare i conti con un godimento estetico incompatibile con la sostanza del narrato.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 28/12/2014

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