Viaggio a Tokyo

Il capolavoro di Yasujiro Ozu ci ricorda la potenza del cinema e il radicale umanesimo che muove i grandi, veri autori

Esiste un tipo di cinema che, semplicemente, non è possibile vedere sul piccolo schermo di un pc o di un televisore. Si tratta del triste destino di tanti maestri del cinema, “classici” ma non abbastanza da essere riproposti con frequenza in sala. Rivedere Viaggio a Tokyo ed altri cinque film di un maestro del cinema mondiale come Yasujiro Ozu è un’occasione unica e un bellissimo regalo cinefilo da parte della Tucker Film, casa di produzione e distribuzione legata al Far East Film Festival di Udine.

Viaggio a Tokyo è uno dei film più riusciti e acclamati di Ozu. Il regista mette in scena la semplicissima, lineare storia di una coppia di anziani che prende un treno per andare a visitare i figli in città. Questi, ormai sposati e impegnati a costruirsi una vita a Tokyo, hanno poco tempo per loro. Le cose non funzionano, la distanza tra le generazioni si è fatta troppo grande. A prendersi cura di loro è la vedova di uno dei figli della coppia, morto in guerra. Alla fine del viaggio, l’anziana madre si ammala gravemente. Questa volta, sono i figli a intraprendere un viaggio. La famiglia si riunisce per il funerale, forse per l’ultima volta.

Ozu racconta, come sempre nel suo cinema e in particolare nella sua opera tarda, storie di genitori e figli, donne sole e uomini fragili e pieni di rimpianti, libertà e costrizione, infanzia ed età adulta. Non ci sono colpi di scena, grandi movimenti narrativi o esplosioni emotive tanto care, per esempio, a Kurosawa ed al suo sontuosissmo cinema-teatro. Ozu è un maestro della semplicità, e le sue storie sono raccontate in modo così perfetto da essere autentiche. Non sembrano autentiche: lo sono. Una donna sola che piange. Un vecchio addolorato che elabora il lutto con parole di cortesia e dettagli insignificanti. Il dramma famigliare improvvisamente rotto dal gioco di un bambino. Il continuo impasto tra tragedia e commedia, così raro da trovare nel cinema, è perfettamente riuscito e contribuisce a rendere le storie di Ozu così credibili, dirette eppure sconvolgenti. Sembra non succedere nulla, eppure le vite cambiano e i bivi dell’esistenza umana si vanno a perdere nelle nebbie del passato – del rullo precedente.

Quello di Ozu è un cinema umanistico e non tecnico; è l’opera di un maestro e di un poeta solitario, non di un cinefilo. La sua influenza sul cinema giapponese e globale contemporaneo è immensa, anche se non tutti i suoi epigoni (innumerevoli, da Hong Sang-Soo a certi film di Hirokazu Kore-Eda, fino a buona parte del cinema “arthouse” globale) sono consapevoli di questo debito artistico. Purtroppo, molto del cinema d’autore che muove da premesse apparentemente simili non è stato in grado di replicarne la grandezza, preferendo indugiare su lentezza e autorialità gridata e non sulle radici profonde del cinema in cui Ozu credeva.

Ozu è un maestro della narrazione perché non ha bisogno di inventare nulla, né ha bisogno di imporre sé stesso come autore e centro di potere creativo. Il linguaggio di Ozu è, coerentemente, emanazione del tipo di storie che ha a cuore. I movimenti di macchina nel suo cinema si contano sulle dita di una mano: si può individuare un solo carrello in tutte le due ore abbondanti di Viaggio a Tokyo. Non si tratta di una forzatura: non si sente il bisogno di altri carrelli e quell’unico movimento ha una potenza drammatica ed emotiva con pochi eguali. La messa in scena segue regole semplici e coerenti: la macchina da presa si trova quasi sempre al di sotto dei personaggi e le composizioni negli interni puntano ad un’immagine bidimensionale o un “effetto quadro”. I dialoghi sono ripresi e girati nel modo più diretto possibile, senza piani di ascolto[1] e senza considerare la regola del campo-controcampo, altrimenti considerata un dogma cinematografico.

In altri termini, Ozu ha creato un proprio linguaggio espressivo prima ancora che uno stile: un linguaggio piano e trasparente, privo dell’equivalente audiovisivo di subordinate, incisi e florilegi di punteggiatura. Due i vezzi e le firme d’autore: le teiere, onnipresenti nelle sequenze ambientate in interni, e i celebri pillow shots: inquadrature non narrative, spesso composte da paesaggi e dettagli di oggetti, che dividono ogni film in più macrosezioni e contribuiscono a costruire un ritmo regolare e tranquillo per lo svolgimento del film[2]. Un linguaggio, dunque. O forse è meglio definirlo un dialetto, un idioletto costruito con cura e intelligenza. Questo linguaggio connette tutta l’opera di Ozu, al punto che persino due film diversissimi come Viaggio a Tokyo e Buongiorno! (Ohayo) possono e, anzi, dovrebbero essere intesi come due tappe di un singolo percorso. Due novelle di un’unica raccolta di poesie composte ed intime. Piccoli aneddoti raccontati agli amici durante una calda serata estiva, sorseggiando del saké e componendo, quadro dopo quadro, un grande dramma elegiaco sull’uomo. Non ci sono eroi omerici, grandi saghe famigliari, né prologhi, né finali: semplicemente, Ozu racconta la storia di un viaggio che ogni spettatore ha fatto o dovrà fare. Una storia che resisterà al tempo che passa e alle migliaia di film che scorreranno davanti ai nostri occhi, e che ricorderemo per una vita.

[1] Ovvero inquadrature che mostrano un personaggio che ascolta il discorso altrui in una scena di dialogo, che solitamente coinvolge due personaggi.

[2]Da non confondere con il cosiddetto establishing shot, piuttosto comune nel cinema occidentale come orientale, che consiste in inquadrature in campo lungo o lunghissimo e che forniscono un preciso contesto spaziale o temporale alla sequenza che li segue.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 17/06/2015

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