Cannibal Holocaust

Deodato denuncia l'ipocrisia occidentale e si trasforma nel cattivo agli occhi del mondo

Una bionda totalmente svestita è legata a braccia tese, mentre i volti di quattro brutti indigeni spuntano dal fogliame retrostante. A nascondere la zona più intima della donna svetta la scritta Nackt und zerfleischt, ovvero il titolo tedesco di Cannibal Holocaust. Se si dovesse giudicare il film di Ruggero Deodato unicamente dal manifesto alemanno, sarebbe difficile negare la componente razzista palesata nell’incolumità della donna occidentale messa a repentaglio dagli istinti primordiali degli aborigeni. La raffigurazione non si discosta dai cartelloni di regime su cui imperava la scritta difendila! o dalle copertine delle riviste men’s adventure dove il voyeurismo era giustificato dalla ferocia del nemico. Bisogna ammettere che nel film di Deodato Francesca Ciardi subisce un trattamento simile a quello prefigurato dall’immagine promozionale. Estrapolata dal contesto, la libera rielaborazione di una scena del film diventa mero specchietto per le allodole che gioca sugli stessi istinti primordiali del pubblico che li ricusa. Di fatto il classico deodatiano parla proprio di questo ed è ormai celebre il pensiero con cui si conclude: «Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali».

Cannibal Holocaust non è un film razzista perché l’abbandono della civiltà a favore dell’esplorazione di terre selvagge non si limita a un giro di giostra tra orrori e meraviglie da cui l’eroe tornerà indietro integro. Ma diventa un viaggio interiore nel cuore di una tenebra impenetrabile. L’animo umano si materializza in una giungla sconfinata, dove non c’è gioia nello splendere del sole e le lunghe distese d’acqua si perdono nell’oscurità di adombrate distanze. Le parole di Conrad diventano le immagini di apertura nel film di Deodato. Il verde amazzonico riempie i titoli di testa e, grazie al tema di Riz Ortolani, appare quale contraltare paradisiaco dell’inferno vietnamita, dove il giallo del fumo e il rosso del fuoco spazzavano via il naturale colore della vegetazione, nel prologo del più celebre adattamento di Cuore di tenebra. Come il capitano Willard di Apocalypse Now, anche il professore Monroe di Cannibal Holocaust accetta un incarico che lo porterà a ripercorrere il sentiero di un uomo in bilico tra genio e follia, tra magnificenza e sadismo. Il colonnello Kurtz lascia il posto al regista Alan Yates e alla sua piccola troupe. Se il primo aveva tagliato i ponti col passato per rinascere in forma di divinità agli occhi di un popolo nuovo, il secondo ha mitizzato la propria figura già prima di perdersi. Il viaggio del professore Monroe è difatti una missione di salvataggio che fallisce nella scoperta delle spoglie di Yates ma che permette il recupero del materiale da lui filmato. Nell’impossibilità di salvare l’uomo, Monroe tenta di riportare a casa almeno il regista attraverso la restituzione al pubblico della sua ultima opera. La pellicola sviluppata non è però il prodotto finito, in quanto sprovvista della caratteristica specifica della settima arte, ossia il montaggio. Ciò che si palesa agli occhi del professore è una verità lapalissiana: il cinema, anche quando documentario, è manipolazione. Il lavoro in moviola non è tanto di assemblaggio, quanto di sottrazione. Ma una volta che il trucco viene a mancare, la magia svanisce e resta tutta la tristezza del reale. Se il primo viaggio nella giungla aveva reso Monroe consapevole di non sapere, riviverlo una seconda volta attraverso le riprese di Yates ha un effetto devastante in quanto rivelatore di tenebre fatte di soprusi, ipocrisia e vanità. La menzogna, che ha in sé un lezzo di morte e un alito di corruzione, avvilisce e nausea Monroe come Marlow, fino a desiderare di consegnare personalmente Yates all’oblio. Per uccidere definitivamente chi ha già smesso di vivere è necessario distruggerne la memoria. Negare l’esistenza dell’ultimo film di Yates equivale a mantenere segreta la missione con cui si pone fine al comando del colonnello Kurtz. In entrambi i casi il pubblico non dovrà sapere.

Il paradosso di un film che gioca sull’invisibile confine tra vero e falso e che denuncia ciò che noi riteniamo reale come quotidiana macchinazione, è di venire osteggiato, censurato, sequestrato per il suo eccesso di credibilità. La fiction sorpassa il documentario e acquista la nomea di snuff movie. Anche una volta dimostrato che nessun attore è realmente morto sul set, Cannibal Holocaust resta un titolo infelicemente ricordato per la violenza sugli animali. Tale accusa, per quanto legittima, tende spesso a coprirsi di ipocrisia perché chiude un occhio se alla regia ci sono Francis Coppola o Giuseppe Tornatore e mira invece a invalidare qualsiasi potenzialità comunicativa del film di Deodato, riducendolo a mera spettacolarizzazione. Il rispetto di ogni forma di vita è un tema che non si può liquidare velocemente ma che richiede in primo luogo onestà. Puntare il dito contro una riproduzione del reale, trasuda idiozia quando si dimentica che il consumo eccessivo di carne non è una questione di sopravvivenza ma di piacere, al pari della visione di un film. Sentirsi parte attiva dell’olocausto è il primo passo per smettere di essere Alan Yates.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 04/07/2017

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