Camping del terrore

Deodato realizza uno slasher sull’onda del successo di Venerdì 13 e Halloween

Sul finire degli anni Settanta il mercato cinematografico americano venne letteralmente invaso da pellicole appartenenti al cinema horror, caratterizzate da una trama scarna e da scene truculente di omicidi. Lo slasher movie, nome di questo vero e proprio filone, si sviluppò dopo il successo di Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter, datato 1978. A conferma del clamoroso proliferarsi di questo ramo tutto nuovo del genere horror (derivato, però, in gran parte da alcuni lavori italiani quali Sei donne per l’assassino e Reazione a catena, entrambi di Mario Bava) arrivò nel 1980 Venerdì 13, diretto da Sean S. Cunningham, capace di incassare nei soli Stati Uniti circa 40 milioni di dollari, a fronte di un budget di mezzo milione. L’industria cinematografica italiana che sul finire degli anni Settanta, complice l’esplosione della tv privata e un radicale cambiamento delle abitudini della popolazione, si stava ripiegando su se stessa, continuava, cimentandosi in coraggiose operazioni di sopravvivenza, a basarsi su un principio di sfruttamento intensivo di filoni che partono come operazioni parassitarie e degradate di fenomeni di successo nazionale, o da importazioni di modelli stranieri. Camping del terrore rientra, in tutta probabilità, nella seconda categoria.

Lo slasher di Ruggero Deodato racconta le vicende di un gruppo di giovani che giunge in un campeggio circondato dai boschi per trovare relax e divertimento. Ma un misterioso e pazzo omicida comincia a eliminare i componenti della comitiva gettando i ragazzi in un incubo senza fine. Nell’intreccio e nella presenza di alcune sequenze all’interno di bagni e camere da letto Deodato attinge a piene mani dal film di Cunningham (che a sua volta si era fortemente ispirato a Mario Bava). Deodato, pur muovendosi costantemente in una zona borderline del cinema italiano, si era sempre distinto, soprattutto a partire da Uomini si nasce, poliziotti si muore, per la cura nella costruzione della trama e per l’attenzione con cui venivano delineati i personaggi. In Camping del terrore, invece, il regista appare distaccato, disinteressato: i protagonisti della vicenda sono trattati come bestie da macello, quasi indistinguibili, intercambiabili l’uno con l’altro per l’assenza di informazioni che abbiamo su di loro. L’attenzione del regista sembra piuttosto rivolta verso il carnefice, essere misterioso dalle sembianze sciamaniche. È lui il vero protagonista della vicenda, la creatura che ruba la scena ai protagonisti, tanto che l’uccisore riesce a raggiungere lo stesso grado di simpatia (o antipatia) con cui sono rappresentate le vittime.

In questo mix empatico, l’unico vero motivo che spinge il pubblico a guardare il film è l’omicidio, in tutte le sue variazioni di metodo, una serie di efferate uccisioni che spostano l’attenzione dello spettatore su quel body count che è anche il titolo con cui la pellicola è stata distribuita negli Stati Uniti. Gli assassinii ricercano costantemente l’effetto shock, in un percorso volto a scardinare i tabù e i pilastri di una cultura borghese occidentale non abituata a tanta brutalità. L’omicidio sullo schermo diventa un vero e proprio orgasmo, climax per eccellenza di tutto il genere pornografico. Lo spettatore, che non trova identificazione con nessun personaggio, rimane semplice voyeur, testimone inerme della vicenda. E in questo smembramento di corpi e di processi narrativi, il finale del film risulta essere aperto: alla rottura dell’equilibrio iniziale non segue, al termine della pellicola, un vero e proprio ristabilimento dell’ordine. L’assenza di una conclusione definitiva suggerisce una forma di incertezza, la stessa (declinata all’interno del contenitore orrorifico) che condiziona la generazione rappresentata in Camping del terrore, uscito in Italia nel 1987 ma realizzato nel 1985. Una generazione non più imperniata sulle tendenze collettivistiche e su un’attività costantemente di gruppo che aveva condizionato pesantemente il tempo libero, ma raccolta attorno alla sfera privata, in un ambiente fatto di disimpegno (politico e ideologico) e disinteresse verso la comunità, vittima di quel riflusso che alla fine degli anni Settanta stravolse la società e il costume italiano, spingendo il Paese nei rutilanti anni Ottanta. È proprio in questi anni che il cinema dell’orrore si fa cantore di questo disagio giovanile, sviscerato in parte anche dal film di Deodato.

Autore: Giovanni Belcuore
Pubblicato il 14/07/2017

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