Blood Father

Il ritorno di Mel Gibson all'action movie colora di genuina follia l'ennesimo revival nostalgico

Della recente, incontrollabile ondata di nostalgia che ha investito gran parte delle narrazioni contemporanee permeando di un gusto tutto vintage e ottantesco un intero immaginario, Blood Father è sicuramente uno degli ultimi, più schietti e sfacciati esempi.

Dopo le mille, ironiche declinazioni, revisioni e riesumazioni di sottogeneri, suggestioni e topoi narrativi del decennio edonista per eccellenza, non poteva che essere l’action il luogo privilegiato per rispolverare la follia nervosa e iconica di una stella impazzita come Mel Gibson.

É proprio dalla scintilla blu elettrica dello sguardo del redivivo Martin Riggs di Arma Letale (già, in parte, rievocato in film recenti come I Mercenari 3 e Machete Kills) che pare partire e prendere forma questo film scarno e immediato, diretto e incosciente come il suo rozzo e barbuto protagonista.

D’altronde, due o tre cose sul genere il francese Jean-François Richet, dopo il dignitoso remake del carpenteriano Distretto 13 e, soprattutto, dopo l’interessante e ambizioso dittico di Nemico Pubblico, le aveva di certo già imparate, e il risultato, tutto sommato, non può che confermare le aspettative.

Certo, la trama potrebbe anche essere sin troppo lineare e risaputa – con una ragazza in pericolo che, ritrovatasi a fare un torto a un boss ispanico locale, chiede aiuto al padre ex galeotto ed ex alcolista in fase di riabilitazione risvegliando, inevitabilmente, la belva che è in lui – eppure a Blood Father, in fondo, basta un personaggio cucito perfettamente addosso al suo interprete (e alla sua nuova, controversa immagine pubblica), un paio di attori giusti nel ruolo giusto (su tutti William H. Macy e Michael Parks) e quel pizzico di ironia e imprevedibilità in grado di far esplodere la violenza quando meno la si aspetta (o quasi), per far dimenticare le sue sbavature, i suoi eccessi bozzettistici, una costruzione della tensione non sempre impeccabile.

Facendo perno sulla sua star, invecchiata eppure sempre uguale a sé stessa, ancora più che sui meccanismi di genere o sulle trovate di regia, mettendo in primo piano l’ottima quanto essenziale ed elementare caratterizzazione dei personaggi piuttosto che intrecci o colpi di scena, Richet garantisce l’atmosfera e il coinvolgimento necessari per far esplodere la sua muscolare parabola di riscatto e amore filiale. Fino a catturarci, facendoci preda, ancora una volta, di un’incontenibile quanto inspiegabile nostalgia per il passato.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 05/11/2016

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