American Honey

Andrea Arnold, al suo quarto lungometraggio, lascia la madrepatria inglese per disegnare il profilo disilluso e sisifeo di un’America che non sogna più.

Fin dai suoi primi cortometraggi Andrea Arnold ha sempre dato al suo cinema un’impronta impegnata, facendo riprendere alla videocamera i margini della società, i suoi contorni. Dopo le case popolari della periferia dell’Essex in Fish Tank o la riflessione sulla condizione di emarginato di Heathcliff nella rilettura cinematografica di Wuthering Heights, con American Honey la Arnold si sposta oltreoceano per confezionare un ritratto impressionista della sottocultura del Midwest americano.

Il tipo di racconto che viene scelto è quello del road movie, genere che permette di tracciare dei contorni allo stesso tempo più sfumati e impressionanti trasponendo la narrazione della marginalità anche sul piano formale: la gioventù americana itinerante è indubbiamente l’oggetto della pellicola ma rappresenta in egual misura l’occhio attraverso il quale ci viene restituito, man mano, il paesaggio nelle modalità del racconto di viaggio. L’essenza del discorso sociale tenuto dalla Arnold sembra infatti emergere dall’opposizione fra ciò che viene visto e l’occhio di chi vede: fra la ricchezza (squisitamente materiale) e la povertà delle cittadine che costellano il Midwest americano, fra i sedentari e i giovani che lavorano per Krystal che passano la maggior parte del tempo su un pulmino, o nel motel di turno, o fra la vecchia generazione che ascolta Bruce Springsteen cantare di sogni e la nuova che non sogna più. Opposizione, sostanzialmente, fra i suoi giovani protagonisti e i paesaggi che di volta in volta osservano, un rapporto che il formato 4:3 permette di rendere alla perfezione facendo entrare i due poli uno per volta nell’inquadratura.

Isolati dal paesaggio e in continua condizione di sorvolo rispetto alle realtà percorse, i giovani di American Honey non chiedono più niente al mondo, non si rapportano più a ciò che li circonda nelle modalità della teologia o della teleologia. Non a caso è un esponente della vecchia generazione a cantare («Come on dream baby dream») e a parlare di sogni a una Star – e da qui la sfumatura ironica del nome – che abita piuttosto l’hopeless place cantato da Rihanna. Le fantasie di questa gioventù somigliano più a dei brevi momenti di evasione che a qualcosa di radicato o perseguibile. Privata di qualsiasi forma di aspirazione o disperazione la pellicola si sviluppa completamente nell’orizzontalità di un avanzare senza nessuna forma di trascendenza: le fattezze caratteristiche del racconto di viaggio vengono snaturate e si risolvono in un percorso senza ascese né discese che non si dirige sostanzialmente verso nulla di preciso. Da qui l’insolita forma che prende, a sua volta, la componente coming of age della pellicola, anch’essa svuotata della retorica tradizionale nel momento in cui il perseguimento di qualsiasi cosa che esuli da questa condizione itinerante – come l’amore che Star ricerca in Jake – si sgretola in una fatica sisifea che ad ogni nuovo contesto sembra doversi nuovamente riproporre per poi venir nuovamente vanificata.

Tuttavia leggerezza e superficialità non vengono dipinti come i poli necessariamente negativi di pesantezza e profondità: la lievità di questa gioventù americana somiglia più alla superficialità greca come la descriveva Gilles Deleuze (Platone, i greci in Critica e clinica) che permetteva un rapporto più diretto e aderente alla vita e alla terra. Senza nessuna forma di retropensiero o di distacco dalla realtà in cui vivono, i protagonisti della Arnold fumano, bevono e cantano vivendo pienamente e completamente nel presente. Da qui il tono disilluso ma tutt’altro che disperato che la pellicola assume in perfetta sintonia col suo titolo. Il Midwest americano si rinnova ad ogni chilometro senza fine davanti a sé e senza memoria alle spalle, e ad ogni inquadratura si riscopre capace di regalare allo sguardo momenti a loro modo incantevoli. Il road movie si presenta, ancora una volta, come la forma perfetta per esprimere l’instabilità e l’accumulo disordinato di emozioni, mostrandoci il mondo dalla prospettiva del turista che colleziona souvenirs e fotografie. La strada non è più mezzo o percorso ma vera e propria condizione di esistenza dei personaggi e del film stesso.

In tutto questo il modo di filmare della Arnold si fa coerentemente impressionista, ricordando, a tratti, lo sguardo della camera di un Terrence Malick, ma tenendosi ben lontano dai soggetti eterei tipici del regista statunitense. La videocamera si prende tutto il tempo di attardarsi sulla sua protagonista e di insistere sui dettagli. Anziché esporsi o annunciarsi, però, si fa estremamente delicata quasi non volesse intromettersi o svelare il proprio lavoro di composizione dell’immagine, che risulta di conseguenza quanto di meno artificioso si posa pensare. Priva di invadenza scenografica o registica l’impressione restituita è vicina ad un cinema iperrealista o voyeuristico. Si tratta della sottile astuzia del lanthanesthai, vale a dire del volersi dissimulare dell’azione retorica, quando in realtà è la regista e non la scena a gestire dal primo all’ultimo filo della composizione. Il film è, infatti, una sequenza sottilmente ritmata di momenti autenticamente poetici (lo spettacolo del fuoco che brucia visto dal pick-up di uno sconosciuto a cui Star si prostituisce, il magico incontro con l’orso, un insetto teneramente salvato da una piscina) alternati al quotidiano squallore delle case abitate dai poverissimi così come dai ricchissimi.

Autore: Irene De Togni
Pubblicato il 25/08/2017

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