The Lack

I Masbedo sviluppano la loro esperienza come videoartisti in un racconto esteticamente impeccabile ma privo di emozioni

Donne alla ricerca di qualcosa. Un amante perduto, atteso tutta la notte; il senso di un’infanzia nascosto in un sogno; un faro luminoso su un’isola deserta. Il vuoto interiore declinato al femminile e tradotto in una spinta verso il mondo esterno, impersonato da una natura selvaggia, aspra e severa, reale e onirica, lungo la quale far avanzare il proprio corpo: e la pelle che incontra la durezza del terreno e saggia la fatica del peso. Questo é The Lack.

I Masbedo sono un duo di videoartisti (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) con un curriculum di esperienze figurative raccolte tra musei e festival di tutto il mondo: l’impronta espressamente formale dei lavori passati è facilmente constatabile in The Lack, gruppo di episodi sul tema dell’assenza interpretati da sei donne immerse in grandi spazi vuoti, ove possono esteriorizzare liberamente l’esigenza di veder appagata la propria fame spirituale penetrando a fondo nell’ambiente. Un cinema così volto a un’estrema consapevolezza del dato visivo non può che tradurre il racconto in immagini: il film si sviluppa per metafore, ogni inquadratura elabora uno spostamento di senso dal visto al vissuto dei personaggi. Una scelta comprensibile poiché una riflessione tanto esplicita sulle forme del linguaggio visivo è indispensabile per un discorso che veda cinema e videoarte come duplici partecipanti dell’esperienza dell’immagine in movimento; ma laddove l’immagine assuma tanto valore da sovrastare la storia che dovrebbe raccontare, l’esito finale rischia di limitarsi a una splendida costruzione dell’inquadratura cristallizzante il sentimento gelato in preziose quanto fredde allegorie.

In parole povere ciò che manca in The Lack è un’emozione sinceramente sentita. L’episodio più riuscito sembra il primo, in cui una donna in attesa di un uomo che non manca all’appuntamento inizia lentamente a lasciarsi sommergere dal panico, cellulare stretto fra le mani e occhi sbarrati per non perdere una chiamata che non arriva, fino a cercare all’alba, tra la neve, un rito di cancellazione della donna innamorata – e disperata – che è stata. Sembra quasi che il cinema operi qui una sorta di esorcizzazione del dolore, teatralizzandolo in gesti e azioni rarefatte, simboliche, per arginarne la portata. Un comportamento frequente nella vita comune quale via di sfogo per sensazioni troppo forti da reggere senza contenerle in una forma chiusa, ma poco soddisfacente in un contesto artistico che si proponga di rendere in immagini i sentimenti più comuni e profondi dell’animo umano.

Splendidamente costruito, interpretato e allestito, l’opera di Masbedo si fa vedere volentieri senza contagiare però lo spettatore con l’angoscia che sulla carta attanaglia le protagoniste. Non che il problema sia il simbolismo, la metafora esacerbata, l’allestimento scenografico delle scene: piuttosto è la mancata corrispondenza fra racconto e apparenza esteriore che scolpisce il film in una raffinata scultura di ghiaccio. La videoarte può e deve continuare a dialogare con le forme più consolidate del cinema, giacché è in realtà impossibile oramai distinguere i limiti concettuali fra i due fenomeni artistici; ma scambiare l’espressività visiva per una produzione sterile di figure è un equivoco formale da cui bisogna guardarsi.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 31/08/2014

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