Macbeth

Un rigoroso ritorno al testo originale, due interpretazioni eccellenti soffocate da una monolitica messa in scena che evade ogni sfumatura esistenziale

Tutti i personaggi di grande spessore drammatico e letterario, che siano inclusi nelle tragedie o commedie greche o nel teatro elisabettiano, personaggi classici di un classicismo letterario teatrale o extrateatrale, vivono di più esistenze, la prima, la vita data dal loro autore, più altre esistenze, le trasposizioni che sull’opera originale si sono nel tempo compiute. Macbeth, il personaggio più maledetto di tutta la produzione tragica shakespeariana, come i suoi fratelli/sorelle classici, solitamente non si commissiona per trasporlo, ma un autore, giunto ad un grado di maturazione, lo sceglie. E’ impensabile esaminare o discutere su di un personaggio così rilevante senza prenderne in considerazione la storia che un carattere simile arriva ad avere, assumendo tutte quelle sfumature che autori successivi riescono a dargli. Che si tinga di funebre e macabro, racchiudendo il buio dell’anima polanskiana successiva all’omicidio della moglie Sharon Tate, o che venga scelto come meta di un percorso teatrale come in Welles, o che venga ripreso e trasposto in un contesto diverso, nel Giappone feudale, diventando il simbolo di una sanguinosa corruzione come in Kurosawa, Macbeth rimane uno snodo affascinante, parte integrante di un percorso autoriale di lunga data.

Adottando una metafora calcistica (Jullier docet), Justin Kurzel viene scelto per tirare un rigore decisivo, dagli undici metri per paura di sbagliare, e sentendo l’ansia da prestazione provenire dalla panchina e dagli spalti, sceglie di tirarlo forte e centrale, il rigore entra in rete e la squadra vince. Una vittoria sudata, figlia dei rigori, vinta da una formazione di tutto rispetto, Micheal Fassbender nel ruolo del tiranno, Marion Cotillard nei panni di Lady Macbeth, Davis Thewlis nel ruolo di Duncan, Sean Arris e Paddy Considine rispettivamente nei ruoli di Macduff e Branquo. L’interpretazione di Fassbender è magistrale, un corpo ed un volto capaci di trasmettere le scosse dell’animo del valoroso cavaliere trasformato (dal fato e dalla moglie) in tiranno, valore e rispetto, brama di potere, sete di sangue, tirannia, follia, tonalità di grigio queste proprie dell’ombra di un personaggio dello spessore di Macbeth. I problemi sorgono quando si pensa all’operazione di trasposizione oggi, nel 2015, dopo che l’eredità autoriale ha tradotto l’opera shakespeariana attraverso le diverse suggestioni e letture date dai singoli autori che l’hanno tradotto in immagini o rappresentato in teatro. Facendosi scudo di una rigorosa messa in scena, adottando un approccio rigoroso del testo originale, l’opera di Kurzel nulla aggiunge all’eredità finora proseguita. La stessa figura di Lady Macbeth, anima angelica e mefistofelica assieme, vedova nera in grado di tessere la ragnatela nella quale intrappolare l’animo di Macbeth, tracciando il sentiero da far percorrere per trasformare il valore in tirannia ed affogando la fedeltà nel sangue, detiene un ruolo marginale, importante nello sviluppo delle vicende tragiche ma non approfondito come in realtà dovrebbe essere. Le sfumature esistenziali di Macbeth vengono (de)legate perlopiù all’interpretazione di Fassbender, diffondendole nel chiarore e nella trasparenza di una messa in scena fangosa, che fagocita i non detti, gli aspetti suggeriti che nell’opera di Shakespeare diventano punti focali e snodi narrativi importanti, spazi (dis)umani a maglie larghe entro i quali poter operare un’interpretazione personale. I fantasmi si manifestano diventando parte di una scelta occlusiva dello sguardo e dell’interpretazione, austera e corretta, certamente, ma incapace di trasmettere l’ambiguità propria di ogni opera shakespeariana, aspetto quest’ultimo mancante nel film e traducibile in un solo termine: evocazione. Venendo meno il rischio dell’impresa, adottando una strada certa e sicura, anti-evocativa, Shakespeare viene ben rappresentato, ma del tutto denaturalizzato. Se a teatro la messa in scena può anche diventare un aspetto marginale ed ingombrante per i mezzi toni inscritti nel testo, tanto ben suggeriti in Shakespeare da risultare capaci di margini di profondità esistenziale abissali, al cinema, cambiando quindi il mezzo espressivo, la magnificenza delle lande scozzesi, la ricercatezza dei ralenti, la compostezza degli interni, il fervore delle battaglie e l’utilizzo di una colonna sonora di spessore, pesantezza ed ingombro, tolgono l’aria dannata e maledetta al respiro di un personaggio tanto controverso da risultare ancora (e lo sarà sempre) eternamente contemporaneo. Un film godibile ma che nulla aggiunge alla tradizione sul testo, se non l’intepretazione – eccellente - del suo protagonista.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 04/01/2016

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