The Tragedy of Macbeth

di Joel Coen

Per la prima volta senza il fratello Ethan, Joel Coen si mette alla prova con un una versione intimista, austera e rigorosa della tragedia shakespeariana, supportato da eccellenti prove attoriali e da una fascinosa impostazione scenografica. Su Apple Tv+.

Macbeth recensione Point Blank

Nel Macbeth di Joel Coen - austero, essenziale, cupo e intimistico - Denzel Washington e Francis McDormand sono i due poli asimmetrici e asincroni della tragedia shakespeariana da sempre emblema della sete di potere e dell’ambizione incontrollata che degenerano in violenza e follia. Il regista, che qui lavora per la prima volta senza il fratello Ethan, trova la cifra stilistica di questa sua nuova, non facile prova in un minimalismo elegantissimo e tagliente che, tanto in senso estetico quanto sul piano narrativo, spoglia (l’immagine) e asciuga (i contenuti).

I protagonisti - volti notissimi eppure quasi inattesi entro i confini di questo specifico panorama “storico” e di genere - si fanno carico di un confronto estremo e doloroso sia reciproco che drammaticamente solipsistico: la mente si fa abisso di paranoia, angoscia e rimorso.
Attorno ai personaggi, vibra e respira una scenografia che non è sfondo ma quasi terzo elemento senziente, che risponde e reagisce alle interpretazioni intense e tesissime degli attori. Interamente ricostruito in studio, il set si presenta come un claustrofobico diorama che denuncia la propria finzionalità nell’astrazione e nella durezza delle geometrie pure, un incrocio tra l’architettura razionalista, le metafisiche costruzioni dechirichiane e un gotico spogliato della sovrabbondanza decorativa in nome di una severa linearità verticale, esasperata dal formato stretto in cui il film è girato (1.37:1, il “formato accademico” standardizzato negli anni ’30).
Per il trattamento della luce e per la fotografia in bianco e nero – ora contrastato e ora soffuso, e sfumato in una miriade di grigi – ma soprattutto per il rigore formale e la dimensione fortemente interiorizzata entro cui il dramma si sviluppa, si percepiscono certi echi di Dreyer e Bergman e certamente si legge, tra le righe, la presenza dell’antecedente ineludibile che è il Macbeth di Welles.

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Ma la forza del film sta nel saper porre in atto, con sapienza e originalità, uno slittamento espressivo che pone il fulcro del discorso in una relazione tra personaggio e ambiente. Con un’operazione raffinatissima – e se si vuole quasi ossimorica - la regia di Coen riesce a rimarcare la derivazione teatrale, che nelle scelte scenografiche viene apertamente omaggiata, attraverso scelte linguistiche che sono però precipuamente cinematografiche. La foresta di Birnam, attraverso una sineddoche visiva di grande effetto, diventa così un unico infinito corridoio di alberi, restituito con inquadrature che ne esaltano la fuga prospettica. Al di là della fascinazione visionaria, dello straniante (il pavimento della stanza che si fa improvvisamente abisso acquatico per accogliere le allucinazioni del protagonista), del perturbante (eccezionale l’apertura sulla liquida “danza” della strega - Kathryn Hunter - nel paesaggio brumoso), la costruzione dello spazio si fa essenzialmente traduzione visiva dell’impossibilità di liberazione e salvezza che segnano il protagonista, determinandone la caduta rovinosa. Il vuoto opprimente delle stanze, i corridoi labirintici, le teorie infinite e disorientanti di archi dove gioca la luce radente e, soprattutto, il luogo dove si svolge il duello finale tra Macbeth e Macduff: un camminamento stretto tra spesse pareti di pietra che pare sospeso sulla nebbia, dal quale la fuga è impensabile. Perfino le (rare) aperture sugli esterni si allineano a questo stato di cose: lande caliginose e fosche, senza profondità, dove pare di sentire la pesantezza del cielo.
È anche il suono a enfatizzare e rendere palpabile il senso di soffocamento e inquietudine che permea il racconto. Un’eco di passi, una goccia che cade, una mano che bussa alla porta: ogni rumore, qui, è il rumore del rimorso.

Opera controllatissima, densa di richiami, fascinosa e a tratti ipnotica, innovativa nella modalità di rapportarsi all’originale e tuttavia fedele al senso profondo della tragedia di Shakesperare, The Tragedy of Macbeth è però anche un film, in un certo senso, coeniano: perché racconta uno scacco, un confronto spietato con un destino che si mostra allettante (nella profezia della strega) per rivelarsi invece, infine, beffardo e inappellabile.

 

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 17/01/2022

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