L'altro volto della speranza

Politica, malinconia, attualità, razzismo, amore e successo al centro dell'ultimo film di Aki Kaurismäki

Tra l’ultima inquadratura e i titoli di coda di L’altro volto della speranza c’è una didascalia molto importante che sottolinea che il film è dedicato a Peter von Bagh, grandissimo amico di Aki Kaurismäki morto il 17 settembre del 2014. I due avevano dato vita al Midnight Sun Film Festival, manifestazione cinematografica con sede nella città lappone di Sodankylä, nel nord della Finlandia, in cui nella terza settimana di giugno approfittando del sole ventiquattro ore su ventiquattro hanno luogo proiezioni no stop per cinque giorni. Von Bagh è anche l’autore di una meraviglioso volume sull’autore finlandese in cui i due dialogano di cinema, del senso della vita, di alcol, di donne e di amore.

Chi ha almeno una volta letto anche solo qualche frammento di questo testo sa che nell’ultimo film di Kaurismäki c’è tantissimo del compianto storico del cinema (e direttore artistico del Cinema Ritrovato di Bologna), vi si ritrova la stessa ironia e la stoica voglia di superare le avversità della vita. Il film racconta di rapporti personali, di amicizie indissolubili, di legami speciali tenuti in piedi dalla forza dell’immaginazione e della fantasia, rendendo ancora più sentita e commovente la dedica finale.

L’altro volto della speranza è un film duale sin dal titolo, un Giano Bifronte che analizza con rispetto e passione due volti totalmente differenti ma anche profondamente complementari, che se fusi danno vita a una sintesi ideale del cinema di Aki Kaurismäki. Waldemar Wikström rappresenta il suo lato più istrionico, quello più sommesso e disincantato, un concentrato antropomorfo di ironia e apparente sprezzo verso l’umanità, ma che sotto un rivestimento burbero e scostante nasconde un cuore nobile. Khaled Alì è il suo opposto, il volto più terreno del cinema del regista finlandese, l’ultimo dei suoi tanti eroi sfortunati ma agitati da una invincibile fiducia nella vita.

Un ruolo emblematico da questo punto di vista è affidato alle presentazioni dei due, che in maniera significativa instradano lo spettatore nelle rispettive storyline, che per più di metà film rimangono separate. Di Khaled inizialmente vediamo solo gli occhi e una testa che spunta fuori da una montagna di carbone. A bordo di una nave merci il giovanissimo ragazzo siriano arriva a Helsinki con lo sguardo pieno di amore per la vita di chi viene da un conflitto atroce e per questo è pronto ad assaporare fino in fondo anche il più infimo attimo quotidiano, tentando per quanto gli riesce di comunicare il più possibile con il prossimo. Wikström è invece rinchiuso nel proprio guscio, quantomeno sotto il punto di vista comunicativo: lo vediamo la prima volta in una tristissima casa (in cui il tempo pare fossilizzatosi agli anni Cinquanta) avvicinarsi alla moglie e senza dire alcuna parola poggiare sul tavolo a cui lei è seduta semplicemente due oggetti, le chiavi di casa e la fede, prima di andare via dopo un breve scambio sguardi.

L’altro volto della speranza riapre il discorso sul cinema d’autore e il suo rapporto con l’attualità. Se in alcuni casi si può riscontrare una consequenzialità tra una poetica estremamente riconoscibile e racconti un po’ troppo autoreferenziali, a volte ombelicali e poco inclini ad aprirsi al mondo, in altri invece è proprio il cinema d’autore a farsi strumento imprescindibile per un discorso sul mondo. Se questa nozione ha oggi ancora senso è proprio per la possibilità di incrociarsi con l’attualità, di fare da filtro poetico del reale e raccontarne una faccia spesso nascosta attraverso un linguaggio personale e in un certo senso chiarificatore. Se nel 2017 qualcuno utilizza la parola arte a proposito del cinema, di sicuro è anche per via delle opere di Aki Kaurismäki, tutte tremendamente personali eppure così urgenti.

L’altro volto della speranza non fa eccezione, anzi, ponendosi in diretta continuità tematica con Miracolo a Le Havre, l’autore finlandese torna a parlare del contemporaneo con la solita caustica raffinatezza, presentandoci allo stesso tempo un update del disagio a Helsinki e un punto di vista sulla guerra siriana e i suoi rifugiati. Kaurismäki è come sempre dalla parte dei più deboli, dando vita a un discorso fortemente dicotomico che vede da un lato il Potere (spersonalizzato, volgare, insensibile, disumano, approfittatore, violento, meschino), dall’altro coloro che lo subiscono, in particolare gli ultimi, quelli più indifesi, di cui il regista svela il lato più creativo, più vitale e, sotto certi aspetti, più rivoluzionario.

Per capire davvero un film del genere bisogna innanzitutto conoscere almeno un po’ della filmografia dell’autore, della sua poetica e del suo approccio al cinema, ma anche farsi un’idea sulla sua biografia e sul suo approccio alla vita. Prima di diventare regista infatti è stato postino, magazziniere, muratore, imbianchino e critico cinematografico (prima che lo diventassero tutti), poi il cinema ha avuto la meglio ed è riuscito a declinare la sua attitudine “operaia” 24 fotogrammi al secondo, condita da un’ironia malinconica irrinunciabile, unico antidoto a una visione del mondo tutt’altro che ottimista.

A partire da queste basi il cinema di Kaurismäki è sempre stato contraddistinto da una difesa a spada tratta della classe operaia (intesa in senso esteso), da un’etica rigorosissima e da un coraggio non comune nel mostrare il lato oscuro dei potenti. Da un punto di vista prettamente politico il suo cinema non è tanto diverso da quello di Ken Loach, salvo poi divergere in maniera radicale quando dalle premesse si passa alla messa in scena, dando vita a una poetica dal linguaggio molto meno tradizionale, in cui l’estetica pur seguendo pedissequamente l’etica, riesce ad aprirsi anche a una dimensione molto meno terrena e dominata da un’ironia quasi magica, sicuramente salvifica. Solo attraverso questo atteggiamento verso la vita infatti gli eroi dei suoi film, compresi quelli di quest’ultimo lavoro, possono rendere più lievi i dolori della vita, solo prendendo meno sul serio tanto le (rare) gioie quanto le (più frequenti) disgrazie è possibile guardare altrove, lontano dalla solitudine e dalla sofferenza che dominano l’esistenza umana, in particolare dei più deboli.

Pur non offrendo soluzioni “integrate” il regista non sceglie l’evasione, bensì una via ibrida, una miscela tra la spietata critica dell’esistente in tutte le sue forme più disumane e il messaggio di speranza di cui si fanno portatori i personaggi dai lui così amati. Non c’è nulla di umano nella sentenza sul rimpatrio di Khaled, così come non c’è nulla di più ridicolo del neonazista che dopo aver accoltellato il giovane siriano lo chiama sporco ebreo, una sequenza che con due battute e un paio di inquadrature dice tutto sulla stupidità del razzismo.

Parallelamente però il regista costruisce un’idea di comunità fatta sulla solidarietà, sull’impegno e sulla rottura di ogni barriera. Il mucchio selvaggio di eroi dell’ultimo film di Kaurismäki è fatto di uomini e donne fondamentalmente senza particolari qualità, ma che accanto a sigarette e alcol possiedono anche un’indomabile seppur non tradizionale forza di volontà che gli permette di dare tutto anche quando si accorgono ripetutamente di ottenere pochissimo. In questa società ideale la musica ricopre un ruolo fondamentale, soprattutto in quanto forma espressiva non scorporabile dai musicisti, i quali sono perennemente in scena, dando corpo a un’arte che per l’autore è prima di tutto una forma di condivisione e aggregazione.

Si fa una gran fatica a rimanere impassibili durante la visione di L’altro volto della speranza, che in ogni sequenza è segnato da un’ironia tagliente e intelligentissima, capace di dialogare con l’attualità e al contempo con la filmografia di Kaurismäki, di affidare uno splendido cameo alla sua storica musa Kati Outinen che interpreta una venditrice di camicie che ha bisogno di più azione e vuole far saltare il banco e andare a Città del Messico; un film dove il tenerissimo cagnolino si chiama Koistinen come il protagonista di Le luci della sera; in cui il gruppo di ristoratori allo sbaraglio capisce che per avere successo non serve soddisfare davvero i clienti ma vivere di continue inaugurazioni.

Un’opera rigorosissima, impostata su un’inossidabile continuità tra etica ed estetica che dà vita sia a un discorso politico di grande radicalità e impatto, sia a sequenze divertentissime come il duello a poker tra Wikström e il suo temibile sfidante a colpi di alzate di sopracciglio.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 11/04/2017

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