Fantozzi

Il primo capitolo della saga fantozziana ritorna in sala (26, 27, 28 ottobre), a 40 anni di distanza dalla sua uscita. Il 2, 3 e 4 novembre toccherà invece a Il secondo tragico Fantozzi.

Si tratta, spiega il Dizionario di Italiano, di «figura di impiegato di modesta qualificazione professionale, perennemente frustrato e inadeguato alle situazioni della vita familiare e d’ufficio, ignobilmente servile con i superiori e perciò destinato a umiliazioni e fallimenti d’ogni genere: “quello è proprio un f.”».

Fantozzi. Nato personaggio e diventato, tra le tante cose, sostantivo, un vocabolo nei paraggi di voci come “fantoccio” e, naturalmente, “fantozziano”. Un racconto collettivo, la storia di tanti, la grottesca biografia non autorizzata, eppur rivelatrice perché «terapeutica» – come dice il suo inventore –, di un Paese piccolo-borghese. Il capolavoro e al contempo, in fondo, la condanna di Paolo Villaggio, ex impiegato ma in una posizione di rilievo all’Italsider di Genova, che traghettò quel personaggio dalla TV di Quelli della domenica e dalle pagine de “l’Europeo” e dei fortunati libri per la Rizzoli, al cinema. L’attore spiega così il successo di quell’omino, di quella maschera, in un’intervista di Maurizio Porro sul “Corriere della sera” del 28 agosto scorso: «Chiariamo subito che Fantozzi ero io. Certo, con qualche paradosso, ma era l’autoritratto di un perdente che conoscevo bene. Era una specie di confessione. […] La gente si è riconosciuta. Mi dicevano che Fantozzi somigliava a un amico, allo zio, a un collega, perché non avevano il coraggio di dire che loro stessi erano uguali e così volevano insabbiarlo. Quando lo ammisero, ridendo, fu la liberazione collettiva fondamentale».

È il 27 marzo 1975 quando quel titolo, semplicemente Fantozzi, che inaugurerà una saga lunga 25 anni, si materializza sul grande schermo. Ci resterà per molti mesi, praticamente fino alla fine dell’anno. La regia è di Luciano Salce, che firma la sceneggiatura con Villaggio e due maestri come Leo Benvenuti e Piero De Bernardi. Murato vivo da 18 giorni nei vecchi gabinetti della Megaditta, il ragionier Ugo Fantozzi viene liberato – lo hanno ritrovato quei segugi umani dell’ufficio “Impiegati smarriti” – per poi tornare immediatamente alla sua scrivania sotto una rampa di scale: l’accoglienza dei colleghi è pari a zero. La sveglia che suona ogni giorno alle sette e cinquantuno per prendere l’autobus che passa alle otto e zerouno e timbrare così il cartellino alle otto e trenta: tutto «al limite delle possibilità umane» dice la voce fuori campo di Villaggio. È tardi, Fantozzi sarà allora costretto a prendere l’autobus «al volo»: «Non l’ho mai fatto ma l’ho sempre sognato» confessa alla sua “mostruosa” famiglia: la moglie Pina (Liù Bosisio), «specie di curioso animale domestico», e la bruttissima figlia Mariangela (interpretata, in realtà, da un uomo: Plinio Fernando).

La frattura tra lo spazio domestico e quello sociale è devastante. I “padroni” come Catellani (Umberto D’Orsi) che obbligano gli impiegati a venerazioni e inchini di fronte a una statua di madre ancora viva e amatissima che prenderà una sbandata per Fantozzi, suo improvvisato e assurdo rapitore, dopo una partita di biliardo vinta contro il suo capo; partite di calcetto tra colleghi, scapoli e ammogliati, che possono finire anche col risultato di «tre infarti a due annegati», sotto la pioggia violenta del «nuvolone da impiegati»; assurde e catastrofiche avventure in un campeggio frequentato da famiglie tedesche o durante le vacanze sulla neve a Courmayeur; capodanni in umidi seminterrati con una banda musicale che bara sull’orario, per suonare in un altro veglione; un ristorante giapponese dove tagliano le mani a chi non usa le bacchette. Infine, il Fantozzi nuotante nell’acquario umano degli impiegati sorteggiati: un “premio” concesso dal megadirettore galattico (Paolo Paoloni) al ragioniere, che ha ritrovato la fedeltà ai padroni, dopo un’improbabile e breve deviazione comunista originata dall’incontro con il collega Folagra, «la pecora nera, anzi la pecora rossa della ditta».

Un gruppo di caratteristi straordinari: tra gli altri, Gigi Reder con il suo occhialuto, praticamente cieco a sua insaputa, ragionier Filini dell’ufficio “Sinistri” e implacabile organizzatore di iniziative; Giuseppe Anatrelli e il suo vanesio e lecchino geometra Calboni; Anna Mazzamauro e la sua signorina Silvani, eletta per due anni consecutivi «Miss quarto piano» della Megaditta. Ma l’impotenza tragica è tutta del nostro ragioniere: «Un elfo, un coboldo – scrive Gian Piero Brunetta –, un Ercole deforme, un agnello sacrificale, che paga per le colpe di una società cresciuta male, un pronipote adulto e imperfetto dell’Alice di Lewis Carrol, l’anello debole della catena evoluzionistica, un Atlante in sedicimillesimo che regge sulle sue spalle il peso di una piramide sociale priva di regole e di equilibri di rapporti interni. Il suo masochismo è così iperbolico da assumere forme para-epicizzanti».

Il capitolo successivo della saga, Il secondo tragico Fantozzi (1976), avrà ancora, per l’ultima volta, Salce alla regia. Invariata anche la squadra alla sceneggiatura e in gran parte il cast e i volti della pellicola precedente. Sarà il miglior episodio dell’intero ciclo. L’Italia fantozziana è questa, parla una lingua, un italiano che sembra provenire da un abisso di espressionismo ridicolizzato, è un paese con le sue meschinità e i suoi piccoli sogni di evasione, mediocre, vigliacco e opportunista. E allora oggi, a pensarci bene, siamo forse tragicamente più fantozziani che mai.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 24/10/2015

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