Court

Un affascinante processo all'arte diventa l'occasione per mettere in scena il rapporto tra tradizione e innovazione nell'India contemporanea

Mumbai, India. Il cadavere di un operaio viene ritrovato nel sistema fognario della città. Le cause della morte sono incerte e Narayan Kamble, un anziano cantante folk, viene processato con l’accusa di aver istigato, attraverso un suo brano, l’uomo al suicidio. Muove da questa premessa il film del giovane Chaitanya Tamhane, da un curioso aneddoto al quale bisogna riconoscere una notevole valenza teorica capace di sollevare numerose questioni: quanto è grande l’influenza dell’arte sulla vita sociale? Esistono dei limiti alla libertà d’espressione? E soprattutto, è possibile fare un processo all’arte? Intorno a queste domande il regista ha costruito il suo film, seguendo la lunga vicenda processuale e lasciandosi sedurre dalla voglia di trasformare il tribunale in un microcosmo autonomo, capace, per via di metafora, di parlarci delle ambiguità dell’India contemporanea. Il processo diventa l’occasione per il regista di mettere in scena le incoerenze e le illogicità che caratterizzano la vita sociale in India: l’avvocato difensore del cantante utilizza come armi di difesa una sorta di di giudizio oggettivo e illuminato, cercano di tenere conto della contemporaneità sociale della vicenda, mentre l’avvocato dell’accusa, una donna, si appella inderogabilmente a legge e decreti vecchie di decenni. A rimbalzare continuamente nel discorso di Court, il tema delle responsabilità dell’arte (il pretesto, usato dall’accusa, dei libri trovati a casa di Narayan Kamble, la cui circolazione in India era stata vietata un secolo fa) e della paura che ogni forma d’arte possa ancora incutere a un’idea astratta di Potere. L’intelligenza, ma anche il limite del film, sta nel non proporre una visione personale sulla materia, lasciando che l’ambiguità e l’impossibilità di arrivare a una conclusione propria emergano direttamente dai personaggi, dalle loro parole e comportamenti. Affascina di Court il modo in cui il regista descrive i propri personaggi nel loro quotidiano, seguendoli fuori e dentro il tribunale, ma correndo così l’inevitabile rischio di perdere qualcosa in forza concettuale. La sequenza più curiosa è quella di una rappresentazione teatrale nella quale, dietro la cornice di una commedia, viene lanciato un preciso attacco contro l’immigrazione in India. Come a voler ambiguamente sostenere che l’arte possa diventare realmente un palcoscenico attraverso il quale comunicare sentimenti di appartenenza politica, e giustificando in qualche modo l’accusa rivolta a Narayan Kamble, il quale, tornato in libertà, si lancia a sua volta in un’invettiva contro l’arte. Un’ambiguità questa che può anche diventare lo specchio di un paese il cui conflitto irrisolto tra tradizione e innovazione arriva a distorcere le possibilità espressive dell’arte, a costringerla nella veste di semplice strumento utilizzato per parlare d’altro, per denunciare ad alta voce. E in quest’ottica la rappresentazione anti-immigrazione sarebbe il voler mettere in scena, da parte di Tamhane, i limiti ideologici cui deve sottostare l’arte in India. In questo cortocircuito fertile, ambiguo e senza conclusione (nel finale Il protagonista sarà accusato nuovamente di attività sovversive), risiede la forza e la debolezza di Court, in uno sguardo oggettivo, curioso e attento che finisce, strada facendo, per sviluppare maggiormente il proprio amore per i personaggi che le premesse teoriche dalle quali era partito. Con il rischio così di agitare questioni scomode e complesse ma senza poi approdare a una prospettiva teorica forte e consapevole. Un sguardo potente quello di Chaitanya Tamhane, al quale è mancato il coraggio di una messa a fuoco capace di trasformarsi visione deflagrante.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 05/09/2014

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