The Young Pope.

Il contraddittorio di una parabola rovesciata genitrice di amore e santità

"...il mondo si è fermato, si è fermato a parlare di amore"

In molti si aspettavano una sconfitta su larga scala. Altri l’aspettavano e basta. I primi già desideravano vedere infrangere il nome di Sorrentino, legato all’estrema artificiosità, all’eleganza convenzionale, all’egocentrismo smisurato e goffo su di un formato che, come quelle seriale, presuppone alcune precise regole di narrazione. Gli altri erano perlopiù curiosi, intimoriti anch’essi da una sconfitta che sarebbe potuta avvenire, alla luce della consapevolezza nei confronti dei limiti formalizzanti del loro autore. Sorrentino fa parte di quel pugno di registi in grado di dividere il pubblico e la critica precisamente a metà: tra gli esteti, i barocchi, i raffinati e gli altri, i puristi, i realisti, gli essenziali. Sarebbe ingiusto non riuscire ad ammettere e criticare Sorrentino quando il suo gesto diventa esagerato, traducendosi nel personaggio grottesco di se stesso – come avviene in This Must be the Place - quando cerca di muovere il suo sguardo senza che nessun bisogno (narrativo o enunciativo o puramente logico) lo sostenga. Ma sarebbe altrettanto ingiusto non apprezzarlo quando la sua estrosità si pone al servizio delle narrazione - come spesso accade nella serie che andremo a recensire - o quando il suo piano sequenza si riesce a collocare tra il personaggio rappresentato ed il sublime, tra la vista il cuore e la testa dello spettatore. Sorrentino è un regista che va contenuto, se lo si confina dentro a dei limiti di budget, o puramente espressivi, o narrativi, dimostra di essere uno dei più grandi registi italiani viventi.

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Partiamo dall’araldica e proviamo e definire lo scudo. Più che di Fellini è di Petri la casata d’appartenenza dell’autorialità di Sorrentino. Da "Tony" Pisapia a Titta Di Girolamo, dall’usuraio "Cuoredoro" all’Andreotti de Il Divo (il più petriano di tutti i film di Sorrentino, se lo osserviamo alla luce dello stretto legame che intercorre con Todo Modo), da Jep Gambardella all’hotel termale dove vanno a morire, o a rinascere, vecchi e giovani nuovi mostri; con Pio XIII, alla mostruosità dell’uomo contemporaneo messa in scena da Sorrentino, si aggiunge un nuovo contraddittorio protagonista. Immagine esattamente speculare del Jep de La grande bellezza, Lenny Belardo, si muove nella stessa notte, e nella stessa città, del cinico giornalista e critico teatrale romano. I suoi cardinali frequentano le stesse feste mondane, si aggirano negli stessi circhi di potere, muovendosi tra le stesse contemporanee ed iperrealistiche wunderkammer, stanze labirintiche fatte di corpi, e cariche istituzionali, plastificate ed in lenta putrefazione. Mostri marini arenati sulle spiagge del lido romano il cui tanfo arriva fin dentro ai palazzi del potere o nei night club più esclusivi della Capitale. Se riuscissimo a scindere il mondo contenuto e rappresentato sia dal personaggio di Marcello Rubini che dal contesto geologico, politico e sociale, della Roma de La Dolce Vita, uscirebbero due anime, una legata al sacro ed una legata al profano, ed entrambe arriverebbero ad avere rispettivamente – nella filmografia di Sorrentino - i nomi di Pio XIII e Gambardella. Prima ho parlato di araldica, non a caso. I personaggi di Sorrentino ridiscendono nella loro essenza, sono essi stessi lo specchio deforme del mondo che essi vivono. Sono contraddizioni che definiscono e sottolineano il contraddittorio che soggiace nella loro – e nostra – realtà. Maschere che si ripresentano, che si rimirano, che nuovamente tornano, in una sorta di buco nero genealogico che tutto risucchia senza mai sparire, come un maelstrom su di una mise en abyme.

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E\' giovane, è pop, è Papa. E’ un Santo che agisce come un tiranno, un Papa medioevale dal cuore infranto, un’istituzione che si nasconde, una carica che si cela dietro alla sua scomparsa, un Santo senza un’immagine da vendere e da venerare. Belardo è un acuto conoscitore della tecniche di marketing e merchandising, di rapporti nazionali ed internazionali, un vate dell’attesa che attraverso il senso del mistero svuota le piazze, allontana i fedeli, intimorisce i cardinali, affronta argomenti sensibili sia per l’immaginario collettivo che per l’opinione pubblica trovando sempre – e solo alla fine dell’enunciato - la giusta, nonché sacra, strada da intraprendere dopo le contraddittorie, e pericolose, dichiarazioni iniziali, configurandosi così come un’iperbole rovesciata che riesce a mantenere salda l’incognita della fede. E’ la figura cristologica invertita di un amore che nasce dalla mancanza, dalla prova, dalla preghiera costante verso un Dio che si disconosce. Dio non l’abbiamo mai visto e di Cristo sono rimaste solo delle crocifissioni cristiane, lontane nella semantica del supplizio e del sacrificio rispetto al contemporaneo immaginario socioculturale dove tutto si vede, tutto si sente, niente è più celato e tabù. E il Papa come agisce dentro ad una società dove la stratificazione della vista ha tentacolizzato l’aspettativa, il mistero, l’enigma? Egli si nasconde. Egli agisce come gli altri non vorrebbero agisse. La sua santità si esplicita nel sussurro, nella contemplazione intestina all’interno di una Chiesa che ha perduto il suo appeal di sacralità. E’ un Cristo bello, è un Cristo giovane, è un Cristo finalmente moderno.

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E’ una figura cristologica che ha assunto il lindore bianco proprio di Pietro, e se prende per nome Pio, posizionandosi a ridosso del Ratti e del Pacelli, due figure papali controverse che hanno retto le redini della chiesa in un periodo storico difficile e di transizione, non lo fa certo per caso, volendosi posizionare come una falesia contro un mare di difficile - nell’esercizio e nell’interpretazione – navigabilità. La forza, e la riuscita, del prodotto seriale sta nell’aver costretto un regista virtuoso dentro a degli obblighi narrativi necessari senza sminuire l’autorialità dell’interprete primario e registico. Sorrentino non rimane avvinghiato dentro agli stretti confini della storyline, non (ec)cede di gusto rispetto alla durata dell’enunciato, Sorrentino riesce a comportarsi da autore – attuando un percorso di riconoscibilità stilistica e tematica – senza sacrificare nulla di ciò che gli appartiene. Dall’uso anèmpatico della musica alla geometria visiva, dal movimento di macchina al cinismo dialogico, Sorrentino resta tale e quale a quanto già di lui (ri)conosciamo, acquistando in più una profondità narrativa che su dieci puntate manifesta tutto il suo spessore. Riuscendo a contemporaneizzare una figura che agisce, e pensa, e prega come un Papa santo, perlopiù vetusto nell’ontologica essenza più che nell’immagine, dentro ad un’icona di fede super moderna, condivisibile ed apprezzabile. Dai quadri che raccontano i momenti salienti della cristianità, che scivolano nel background mentre sono attraversati da una cometa sempre più catastrofica a mano a mano che la sigla si esaurisce, ai neon che sulle stesse immagini s’accendono dei titoli di testa, dalla contrapposizione tra l’opera evocativa e concettuale Liberare di Cattelan al quadro di Jusepe de Ribera (Maddalena Ventura con il marito e il figlio) - perno centrale dell’intera stagione, e che assume una nuova semantica nell’immaginario cristiano fondato sulla contrapposizione (e non sulla contaminazione, come espresso dalla serie e dal personaggio di Belardo) tra uomo/donna, Cristo/Maddalena, preti/suore, madre/padre – The Young Pope si presenta come un’opera complessa ed allo stesso tempo semplicissima, costruita su un’architettura contraddittoria, estrosa ed estroversa; una serie che riesce ad essere sia autoriale che popolare, intellettuale, concettuale ed allo stesso tempo accattivante come un readymade duchampiano dalla fattezze di un Papa, esposto dentro ad una galleria d’arte situata in un mercato rionale.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 05/12/2016

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