Westworld 1x09 - The Well-Tempered Clavier

Prossima alla chiusura, la serie HBO regala una puntata ricca di rivelazioni che certifica la natura enigmatica e virale della narrazione.

The Well-Tempered Clavier, penultimo episodio di Westworld, porta a una compiuta definizione l’identità profonda della serie e ne sottolinea la potenza narrativa. Volendo stabilire un parallelo con Game of Thrones – e ipotizzando che questo sia davvero ancora opportuno al di là del tentativo, per ora riuscito, di costruire un fenomeno altrettanto popolare – il nono episodio è quello in cui gli autori si giocano gli assi principali, come d’abitudine nella serie creata a partire dai libri di Martin, facendo da detonatore principale degli interrogativi costruiti in precedenza per lasciare all’ultimo il compito di concluderli e l’obbligo di aprire le traiettorie narrative della stagione successiva.

In questo penultimo capitolo Jonathan Nolan e Lisa Joy svelano alcuni dei misteri fondamentali, gli stessi che hanno contribuito a riempire il web con teorie di ogni sorta, a cominciare dalla fondamentale questione delle linee temporali; dopo una lunga serie di indizi (alcuni incontrovertibili come il campanile della chiesa di Escalante) la soluzione dell’enigma si delinea nella compresenza di almeno tre differenti assi temporali, tutti accomunati dalla presenza costante di Dolores.

Meno chiaro è lo statuto delle immagini che vediamo: molte scene sembrano suggerire che le storyline del passato siano visioni di Dolores sovrapposte al presente, e che alla fuga della donna verso la chiesa – certificata dal centro di controllo – si mischino ricordi del passato, in particolare quelli legati all’avventura con William e Logan. Se da una parte l’idea che la memoria delle macchine sia diversa da quella degli umani (tanto da sovrapporre le due temporalità) può giustificare questa lettura, dall’altra il fatto che per diversi momenti della stagione assistiamo al racconto dell’arco narrativo di William senza la presenza di Dolores cambia ontologicamente la natura di quelle immagini, trasformandole da ricordi e racconto nel racconto a semplice racconto di primo grado.

Al di là delle dispute sulle linee temporali che in questo episodio hanno ricevuto risposta, pur se parziale, The Well-Tempered Clavier contiene anche la fondamentale rivelazione sull’identità di Bernard; proprio nel momento in cui pensavamo di aver capito tutto circa la sua artificialità, scopriamo che non eravamo che all’inizio e che il maggiore dei colpi di scena doveva ancora arrivare. Gli autori (e in particolare la regista dell’episodio, Michelle MacLaren) gestiscono alla perfezione il disvelamento della verità, una discesa agli inferi nella memoria dell’automa che nell’attraversare tutti i traumi impiantanti fa emergere il coraggio di un personaggio che, quantunque artificiale, appare ad oggi uno dei più umani della serie. Quello tra Bernard e Ford è un vero e proprio duello che corre sui binari prima del reale e poi della mente per poi ritornare al reale, e attraverso un climax molto riuscito arriva a svelarci la vera identità di Bernard, incarnazione robotica di Arnold, il vecchio socio di Ford da lui resuscitato e trasformato da rivale ad artificiale braccio destro.

Le numerose teorie che hanno identificato in William l’Uomo in Nero con trent’anni in meno sembrano trovare sempre più fondamento; pur non essendoci ancora la certezza, sono tanti i segnali che vanno in questa direzione tra cui la svolta violenta del giovane, peraltro gestita narrativamente, almeno per ora, in modo meno raffinato di altre e poco giustificata per un personaggio finora ritratto sì come in cerca di un riscatto e di un’auto-definizione ma fondamentalmente romantico, poco incline a compiere un massacro improvviso e di questa portata.

Grazie alle rivelazioni di questo episodio anche il personaggio di Dolores, che dopo un inizio fulminante era stato paralizzato dalle necessità legate alla storyline di William, trova un senso narrativo più compiuto: qui la ragazza fa la parte del leone, diventa il vettore principale delle risposte fornite e di conseguenza la chiave interpretativa necessaria di questa stagione; è attraverso di lei che vediamo per la prima volta in scena Arnold ed è lei che dovrebbe essere coinvolta nel famoso massacro di Escalante, del quale fino ad ora abbiamo ricevuto prevalentemente informazioni false derivanti dalla backstory di Teddy impiantatagli da Ford.

È infine lei che, assieme all’Uomo in Nero, è implicata nell’altro grande mistero stagionale, ovvero il labirinto. A proposito del Man in Black, anche la sua gestione appare non sempre perfetta e la maggior parte delle sequenze che lo ritraggono in questo episodio non sembrano avere particolare rilevanza, ma solo l’obiettivo di condurlo verso l’incontro in chiesa con Dolores; fa eccezione l’interruzione di Charlotte, che infatti squarcia la finzione interrompendo il gioco – come lui stesso sottolinea – e al contempo ne svela la natura finzionale, attraverso un dialogo che serve anche a rivelare agli spettatori il rapporto di collaborazione tra l’Uomo in Nero e la Delos che naturalmente andrà a scontrarsi con i segretissimi piani di Ford.

A prima stagione pressoché ultimata, Westworld si conferma soprattutto un grande esperimento ludico il cui meccanismo enigmistico apparentemente prende il sopravvento sul resto, diventandone la principale fonte di interesse: ogni episodio (soprattutto gli ultimi, considerati giustamente i migliori) termina con rivelazioni ad effetto e sorprese narrative che ribaltano l’assetto del racconto stimolando la produzione di nuove teorie e la formulazione di altrettante domande.

È il gioco tra autore e spettatore a costituire il principale senso dell’opera, una partita avvincente e coinvolgente in cui però si viaggia sempre sul filo del rasoio, sul sottile limite che separa l’avventura fantastica dall’accumulo di misteri fine a se stesso. Anche dal punto di vista creativo, infatti, il rischio di perdersi nella miriade di ribaltamenti è sempre all’orizzonte e se la storyline di Maeve è per ora quella narrativamente più forte, avvincente e costante, ve ne sono altre che se non gestite con la massima attenzione possono rivelarsi meno virtuose del previsto sul lungo termine. Ad esempio: perché uccidere il personaggio più interessante fino a questo momento (Bernard) nonché quello intorno al quale hanno ruotato le due maggiori rivelazioni? E se non lo avessero davvero ucciso, come crediamo, ci troveremmo di fronte all’ennesima morte/non morte da giustificare narrativamente e che ci porterebbe dunque a chiederci quanto dovremmo credere da oggi in poi alla morte di un personaggio.

Manca solo un episodio al termine della prima stagione di quella che, probabilmente, era la serie più attesa del 2016. In nove settimane lo show sviluppato da Jonathan Nolan e Lisa Joy è diventato un rompicapo collettivo, la scintilla capace di innescare fenomeni ben più grandi di una semplice serie televisiva. L’insieme dei discorsi sociali accumulatisi episodio dopo episodio sta assumendo dimensioni davvero inedite, la gara di previsioni e teorizzazioni sta catturando spettatori che – non è da escludere – in altre condizioni avrebbero tranquillamente abbandonato la serie ma che stavolta decidono di seguirla al puro fine di partecipare a questo grande gioco collettivo.

Westworld immerge i propri personaggi, costruiti con una complessità non sempre costante, in due generi (western e fantascienza) che modellano la messa in scena; è una serie che sicuramente racconta la propria storia utilizzando raffinate metafore, significativi messaggi e monologhi difficilmente dimenticabili, ma questa è solo la superficie, perché il suo senso profondo, la sua principale ragion d’essere sta altrove: Westworld è prima di tutto meccanismo ludico impostato sulle attese e sulle soddisfazioni delle stesse, un gioco collettivo iper-complesso che stimola con una raffinatezza forse mai vista prima d’ora l’intelligenza collettiva a generare teorie di ogni genere.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 02/12/2016

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