Westworld 1x04 - Dissonance Theory

Un episodio spartiacque, che chiude l'introduzione del parco aprendosi al cambiamento, ma che soprattutto svela l'intimo carattere labirintico della serie HBO.

Il quarto episodio di Westworld era probabilmente il più atteso fino ad ora ed effettivamente la sua lettura richiede un impegno non tanto inferiore alle aspettative che lo hanno anticipato. La particolarità dell’episodio ha ragioni molteplici e legate a questioni differenti fra loro, delle quali due risultano particolarmente significative.

La prima è di carattere più strutturale, legata alla posizione strategica dell’episodio e alla sua funzione di collegamento tra un primo atto stagionale – in cui si introduceva lo spettatore nel complesso e articolato racconto sviluppando e definendo il world building della serie, approfondendo le questioni principali e i personaggi più rilevanti del plot – e un secondo, che rappresentava il vero e proprio cuore del racconto. La crucialità di questa posizione, come vedremo, è essenziale alla lettura di Dissonance Theory.

La seconda ragione ha a che fare con gli aspetti più strettamente creativi e per la precisione con le figure che ricoprono i ruoli di regista e sceneggiatore. Dietro la macchina da presa c’è infatti Vincenzo Natali, ormai abbastanza esperto di serialità televisiva grazie alla direzione di episodi di Wayward Pines, Hannibal, The Strain (ne girerà uno anche dell’attesissima American Gods) ma che nel 1997 sbalordì tutti con Cube, lungometraggio d’esordio diventato immediatamente un cult. La vera rivelazione è però alla sceneggiatura, dove accanto al creatore e showrunner Jonathan Nolan troviamo Ed Brubaker, autore alle prime esperienze con la scrittura per l’audiovisivo, ma eccezionale fumettista con all’attivo una lunga sequenza di cicli sia con la DC che con la Marvel.

Dissonance Theory si conferma un tassello narrativo fondamentale per quest’annata – almeno per quel che ci è dato sapere fino a questo momento –, un episodio che riesce a miscelare la spinta verso un necessario avanzamento dei sub-plot principali con la creatività di Natali e Brubaker, che guidati dalla ferma mano di Nolan, presentano ad ogni sequenza situazioni di grande impatto estetico-narrativo.

Gli autori giocano al rialzo, incrementando la posta in palio e di conseguenza anche i rischi presi, tanto da restituire un episodio leggermente più complicato degli altri, ancora più impostato sulle domande piuttosto che sulle risposte. Tuttavia queste ultime non tardano certamente ad arrivare, specie per quanto riguarda alcuni aspetti di importanza capitale circa gli interrogativi sui personaggi della serie, e tutte le teorie che in queste settimane hanno prodotto discorsi sociali su Internet e non solo. L’Uomo in Nero infatti sembra essere sempre più certamente un non-androide, un essere umano in passato impegnato in una fondazione a carattere umanitario, ma che anni di parco hanno trasformato radicalmente, spingendolo verso nuove abitudini, nuovi obiettivi e nuovi valori.

Il “problema” di questa rivelazione è che per quanto fondamentale e per quanto richiesta, trascina con sé una vasta serie di interrogativi a sovrastare nuovamente le risposte, marchiando così a fuoco alcune caratteristiche identitarie della serie che oggi sono molto più chiare di ieri. Westworld prima ancora che un parco è un “piccolo mondo”, un universo narrativo percorribile, esplorabile, manipolabile e soprattutto mutevole. La sua conformazione è ogni volta diversa, una faccia nuova a seconda del punto di vista da cui la guardiamo; allo stesso modo questo luogo rappresenta un dispositivo narrativo inesauribile, che a ciascun occhio offre un’immagine stratificata e appositamente dedicata. Un marchingegno che in sé contiene panorami, storie e percorsi esplorabili all’infinito e sempre diversi a seconda dell’interazione che si sceglie di avere con gli stessi.

La storyline dell’Uomo in Nero in questo episodio è estremamente approfondita, con un viaggio nei meandri del parco che conduce all’incontro con due personaggi che avevamo già visto nella sparatoria posta alla fine del pilot; una sorta di film nel film dove la fantascienza viene sospesa in favore del western, grazie alla messa a fuoco di una delle tante storie possibili che permette di capire molto di più sui tre personaggi coinvolti. Il ruolo interpretato con grande magnetismo da Ed Harris diventa così il perno di un mondo nuovo, che abbraccia la frontiera col Messico svelando agli spettatori da una parte il personaggio di Hector e dall’altra quello di Armistice. Scopriamo che quest’ultima è impegnata in una caccia che termina con Wyatt ed è quindi collegata alla storia di Teddy, non a caso incrociato nel corso del cammino.

Tutto lascia pensare che alla fine le due principali direttrici saranno quelle dettate dai percorsi dell’Uomo in Nero e di Dolores, che da quest’episodio scopriamo avere lo stesso obiettivo, ovvero la ricerca del misteriosissimo labirinto.

L’uso del superlativo non è ovviamente casuale perché è proprio nella nozione di enigma che sembra dispiegarsi il senso ultimo della serie. Nella parte iniziale dell’episodio infatti assistiamo all’ennesimo spaccato del rapporto speciale tra Bernard e Dolores, dove per la prima volta il programmatore introduce al suo giocattolo preferito l’esistenza del labirinto interno al parco, lo stesso labirinto che sta cercando l’Uomo in Nero, luogo nel quale i due probabilmente si incontreranno e dove forse avremo alcune delle fondamentali risposte che cerchiamo (specie quelle legate a ciò è successo nel fienile tra i due). Per ora la storyline della bionda “nata per soffrire” si è incrociata in maniera molto interessante con quella di William e Logan, personaggi ancora misteriosi, costruiti appositamente per favorire la moltiplicazione di teorie sul loro conto, come conferma in maniera lampante questo episodio.

Ritornando alle premesse iniziali, è chiaro che Dissonance Theory, oltre a impostare alcune questioni decisamente importanti per la serie e a portare avanti le singole storyline, appare più degli altri come un’autocertificazione identitaria, una sorta di rivendicazione della serie rispetto alla sua stessa e più intima natura.

Westworld è il tentativo di HBO di creare un prodotto di qualità, che sia però popolare e virale. Di qualità, perché c’è la necessità – anzi l’urgenza – che la critica americana valuti positivamente la produzione originale del canale, riportando ai fasti del passato un brand oggi un po’ più debole di prima. Popolare, perché lo show di Nolan e J.J. Abrams è spiccatamente costruito per sostituire Game of Thrones, il quale tra un anno o poco più abbandonerà per sempre il panorama televisivo. Virale, perché per prendere il posto del più importante fantasy televisivo mai creato c’è bisogno non solo di ascolti molto alti, ma anche di creare un’ossessione collettiva, una narrazione capace di correre alla velocità della luce lungo i binari del passaparola.

Per far questo la strada scelta è sempre più chiara, ovvero il tentativo di puntare sull’ecosistema narrativo labirintico, su un racconto fatto soprattutto di domande e interrogativi di ogni tipo, da quelli micro legati alle identità dei personaggi a quelli macro sulla struttura di questa mirabolante fabbrica di intrattenimento. Westworld è dunque soprattutto un gioco, e questo ci viene detto fin dall’inizio; ciò che non ci viene detto, almeno esplicitamente, è che la serie prima ancora che per i personaggi è un gioco per gli spettatori e l’intera narrazione è costruita per garantire una fruizione fortemente ibridata con il gaming. Un’operazione sempre più simile a Lost, negli intenti e soprattutto negli esiti, sebbene declinata attraverso un registro estetico quality e progettata con maggiore intenzionalità.

Dissonance Theory riempie il tessuto narrativo di indizi, misteri e briciole di pane da seguire per permettere a ciascuno di noi spettatori di fare della serie il proprio labirinto. In alcuni casi anche l’empatia svolge un ruolo importante, grazie alla costruzione di personaggi che proprio come gli spettatori sono alla ricerca di grandi risposte. Tra questi c’è Maeve, figura sempre più interessante man mano che la coscienza emerge dal profondo dei suoi algoritmi. L’idea del pupazzo a forma di scienziato che vede in mano alla comunità di nativi – replicato poi dai disegni e dalle visioni – è assolutamente geniale, così come è costruita alla perfezione la sequenza finale in cui il climax porta al ritrovamento nel proiettile nell’addome, prima di un passionale bacio con Hector che condurrà alla morte (temporanea) di entrambi.

Per quanto riguarda le domande sull’origine del parco, sulle sue linee guida e sui rapporti di potere interni, questa volta abbiamo più di un elemento da aggiungere al nostro personale taccuino. Innanzitutto anche l’Uomo in Nero parla di Arnold e questo ci dice qualcosa in più su un passato del parco condiviso, ma soprattutto assistiamo alla spaventosa (auto)determinazione di Robert Ford, che nella scena di dialogo a tavola con Theresa si presenta come il demiurgo assoluto del parco. Pare che questi possa fare di tutto, possa controllare ogni cosa che lo circonda addirittura con la mente e il suo atteggiamento è sempre più inquietante arrivando ad essere esplicitamente minaccioso. Oggi più che mai è il personaggio interpretato in modo intenso e disturbante da Anthony Hopkins il vero villain della serie, colui contro cui quelli che si riveleranno i “buoni” dovranno tentare di combattere.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 28/10/2016

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