Un ragionevole dubbio

Non esistono arti fini a se stesse, impermeabili al mondo che le innerva e ad altre forme di espressione e di linguaggio. Questo vale soprattutto per un linguaggio che, come il cinema, è profondamente definito dalla tecnica e dal denaro. Ciò che una volta era inevitabilmente cinematografico è in seguito diventato materiale idoneo o ideale per il piccolo schermo, il videogioco e le arti interattive, le installazioni video. Per tutti questi motivi, Un ragionevole dubbio risulta come una scheggia impazzita, un oggetto fuori dalla propria epoca, un profondo malinteso. Ingiustificabile sotto il profilo estetico così come quello commerciale, il film di Peter Howitt è un esempio cristallino di cinema che nasce già vecchio, abortito dai suoi stessi creatori: il principale responsabile del progetto estetico-film, ovvero il regista, ha scelto di firmare l’opera con uno pseudonimo, Peter P. Croudins.

Quali sono le ragioni di una così smaccata presa di distanza da parte del regista di Sliding Doors? Certamente la consapevolezza di avere diretto un film che non ha nulla da dire, né guizzi creativi capaci di scavare nel genere di riferimento e portarlo a nuovi esiti. Un ragionevole dubbio è un thriller legale che mette in scena la storia di un procuratore distrettuale di assoluto talento che, per timore di distruggere la propria sfolgorante carriera e la propria famiglia, si macchia del reato di omissione di soccorso. Pentito, cercherà di perdere il processo contro l’uomo che viene accusato del crimine al posto suo, un meccanico che ha perso la famiglia in seguito ad un’aggressione domestica. Prevedibili colpi di scena, non sequitur di sceneggiatura e personaggi secondari appena abbozzati complicheranno la trama televisiva senza risollevarla. Di fronte a una scrittura di scarso livello, a una fotografia generica e a un commento sonoro pacchiano e incapace di costruire in modo naturale un crescendo emotivo e di tensione, sembra quasi di assistere ad un episodio filler di una delle tante serie televisive ambientate in tribunali e relativi dintorni che hanno invaso la televisione e cannibalizzato il relativo immaginario.

Il problema principale del film è proprio quello di non essere cinema: non c’è lavoro sull’immagine, non c’è costruzione di un mondo e di un proprio linguaggio. La genericità e i tempi sono quelli televisivi, privi tuttavia della qualità di scrittura e di produzione che caratterizzano le produzioni americane per il piccolo schermo degli ultimi anni. Privo del fiato narrativo di una serie televisiva, il cinema deve puntare su altro, affermare i propri punti di forza. Ben venga il cinema di genere, purché sia cinema. Un ragionevole dubbio vorrebbe attirare lo spettatore con le emozioni primeve del delitto e del castigo, del pentimento e della redenzione, della giustizia e della violenza. Ma il cinema è cambiato, il pubblico è cambiato: del dubbio del titolo resta solo la farsa di una riproduzione, copia non conforme di una formula ormai vuota. Allocando strategicamente le risorse ed il tempo, ed eliminando le blande impalcature diegetiche, l’opera avrebbe potuto trovare una ragion d’essere ed un pubblico di nicchia a cui rivolgersi, quello del thriller psicologico. Il duello tra i due protagonisti poteva essere reso in modo ben più efficace e salvare Un ragionevole dubbio da un fallimento senza opzione di appello.

Quasi dispiace che i due attori protagonisti, Dominic Cooper e Samuel L.Jackson, non possano disconoscere il film come ha fatto il saggio regista.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 17/08/2014

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