Un altro me

Il percorso riabilitativo del condannato per violenza sulle donne

Dietro alla sfocatura c’è un’identità da salvaguardare, una privacy che elude il dettaglio, il primo piano tagliato agli angoli della bocca lascia alla voce il compito di raccontare un percorso riabilitativo o una drammatica esperienza affrontata. Restando nell’anonimato del volto, sentiamo i racconti dei molestatori, condannati ad una pena detentiva nella Casa di Reclusione di Bollate. Perversioni sessuali che sfociano nella malattia, nel dolore che imprimono sulla psiche della vittima, discorsi agghiaccianti per la semplicità con la quale vengono esposti. Parole dure, discorsi osceni, intollerabili ma veritieri. Uomini incapaci di distinguere il loro piacere dall’indipendenza emotiva ed emozionale della donna con la quale si approcciano. Pedofili, molestatori, pervertiti in bilico tra la redenzione e la recidività. Una piaga che trascende l’atto in se stesso modificando il calibro verso una situazione culturale, e sociale, che investe il desiderio (prima ancora del reato) del maschio. E’ incredibile come alcuni discorsi potrebbero essere espressi in un bar, dove alcuni uomini commentano il passaggio di una donna. E’ su questo piano che il desiderio si traduce, prima ancora che in azione, in violenza condivisa, un desiderio malsano d’aggregazione machista, un cameratismo steroide che disunisce l’umanità in due parti appartenenti ognuna al suo genere di riferimento senza empatia alcuna tra di loro, una caccia tra predatore e preda, appartenenti ognuno più ad un contesto animale che umano. Non saper riconoscere l’emotività dell’altro, non trovare quell’empatia necessaria al rispetto, della donna e dell’altro, è questo il più grande peccato che fuoriesce sia dalle sbarre di Bollate sia nei discorsi tra uomini agli angoli delle strade. Un desiderio di sopraffazione, di controllo violento, di desiderio globulare, sanguigno e selvaggio. Claudio Casazza non schiera il suo sguardo, e questo va a vantaggio della narrazione e della moralità. Il regista presenta la realtà lasciando che lo sguardo collimi con l’oggettività dei discorsi, con la voce dei suoi protagonisti. L’incontro tra la vittima e i carnefici lascia senza fiato, dapprima increduli i detenuti di fronte alla donna vittima dei loro stessi incriminanti bisogni, iniziano al confronto ad assomigliare a dei veri uomini, si vergognano dei loro reati, capiscono il male fatto, ringraziano vergognandosi dei loro gesti impulsivi e dei loro pensieri rei. I percorsi riabilitativi che inducono in ognuno di loro la consapevolezza del loro essere, in gesti artistici tesi al riconoscimento della loro persona, dai ritratti personali alle spirali di nero e di bianco. Gesti che aprono alla comunicazione, sonde di arte inconscia orientate al riconoscimento dialettico tra la loro essenza, la loro sostanza e il loro crimine.

Dopo l’habitat piavoliano, Casazza con Un altro me interroga un secondo habitat, quello carcerario. Un habitat con le proprie regole, i propri comportamenti, i propri esseri protagonisti, le proprie redenzioni e recidività. Un habitat violento, nei discorsi e nei gesti, capace di creare dei percorsi individuali di presa di coscienza, buoni per restituire i suoi reclusi abitanti all’habitat dove tutti noi viviamo. Fuori dalle sbarre ma non certo fuori dai preconcetti culturali e sociali di un mondo violento ed insicuro.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 21/02/2017

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