Twin Peaks 3 - 1x01/04

I primi quattro episodi del nuovo Twin Peaks sono l'avvertimento che sarà presto necessario ripensare del tutto il concetto di sperimentazione in televisione.

«The whole thing is about the experience of going into the world of Twin Peaks, and catching that mood, and going on a trip».

David Lynch ha descritto così, in un’intervista recente, la sua idea del mood perfetto con cui lo spettatore dovrebbe approcciarsi a questa nuova stagione di Twin Peaks; e ad essere sinceri, non potrebbe esserci sintesi migliore dell’espressione “trip” per descrivere l’esperienza di visione di questi primi quattro episodi.

Innanzitutto, la terza stagione non è un reboot e neppure una continuazione in senso stretto, è un esperimento inedito che si posiziona da qualche parte tra la riscrittura, la reinvenzione, l’omaggio affettuoso (non tanto alla serie in sé, quanto all’immaginario dell’autore che alla serie aveva dato vita) e qualcosa di totalmente originale nonché, ovviamente, più autoriale di qualsiasi cosa abbiamo visto in televisione prima di questo momento.

È sicuramente presto per arrivare a qualsiasi tipo di conclusione su COSA stiamo esattamente vedendo, ma è facile pensare che dopo questo nuovo Twin Peaks sarà necessario ripensare totalmente il concetto di sperimentazione in televisione, perché tanto quanto lo fu la serie originale, questa terza stagione sembra spingersi oltre i limiti di quanto è stato fatto finora sul piccolo schermo.

Davanti a questi primi 4 capitoli della storia e all’esperienza sensoriale totalizzante vissuta, è impossibile pensare ad una recensione in grado di trasmettere con completezza sensazioni e riflessioni che scaturiscono dalla visione, o addirittura trovare un filo rosso di senso logico nella lettura del “messaggio” che la serie vuole trasmettere allo spettatore.

La realtà è che trovarsi davanti a Twin Peaks è come assistere ad una metamorfosi in live action: è affascinante vederlo prendere forma e crescere, ma si ha la sensazione di non averne mai il pieno controllo ed è chiaro che non possiamo capirlo fino in fondo né presumere qualcosa in merito alle sue conclusioni.

Da un punto di vista esperienziale, infatti, Twin Peaks non ha per ora nessun significato compiuto in senso tradizionale, ma come il cinema di Lynch la serie riesce a trasmettere una familiarità e un’intenzione che la rendono perfettamente comprensibile, come avviene in un sogno che non ha razionalmente nessun significato ma ci coinvolge profondamente anche più di un’esperienza reale.

Ciò che possiamo dire, è che tutta la trama sembra girare ancora intorno alla figura di Bob, nonostante per ovvie ragioni (la morte dell’attore) questo non appaia mai sullo schermo, e al suo ruolo all’interno del microcosmo soprannaturale della Loggia Nera. In questi 25 anni Bob è stato a piede libero nel corpo del doppelgänger dell’agente Dale Cooper, che ha relegato il vero Cooper all’interno della loggia per un tempo così lungo da fargli completamente dimenticare (o almeno, questo è ciò che sembra) l’esistenza del mondo esterno. Ma al tempo stesso Bob sembra avere a che fare anche con un brutale omicidio nel South Dakota, anch’esso legato all’esistenza e ai traffici illegali di Mr. C/Bad Cooper.

La narrazione si svolge per ora su piani temporali leggermente sfalsati che sembrano convergere verso un riallineamento, e lo stesso si può dire per le location che partono raccontando storyline separate ma trovano punti di contatto sempre più consistenti col procedere degli episodi. Di sicuro la cittadina di Twin Peaks non è il setting esclusivo degli eventi, ma sembra mantenere (e forse, rafforzare gradualmente) una propria centralità così come l’Agente Cooper, indiscutibile protagonista sia pure all’interno di un cast enorme che per ora ha già messo in campo elementi di primo piano come Jennifer Jason Leigh e Naomi Watts, insieme a tanti visi familiari ai fan di Lynch.

Un mondo più ampio, in cui l’Agente Cooper rientra nella realtà con un’altra identità e innocente come un bambino, rinasce, ricomincia a imparare; un mondo che rende necessario ampliare lo sguardo stesso attraverso una varietà vertiginosa di linguaggi narrativi e visivi: la fotografia e lo stile di ripresa che mescolano la qualità dei vari generi (dalla soap al thriller al noir) con la pittura e la videoarte; ma anche la differente qualità video, i diversi registri della regia e della recitazione. Senza dimenticare l’attenzione agli effetti sonori e alla musica ,che accompagna il surrealismo visivo con picchi di volume e improvvisi cambi di registro che amplificano la risposta emotiva, in puro stile lynchiano: dalla colonna sonora originale della serie creata da Angelo Badalamenti fino alle esecuzioni live, finora ricorrenti in chiusura di ogni episodio, di band contemporanee indie accumunate da un approccio synthpop come i Chromatics e gli Au Revoir Simone.

L’avere a disposizione ben 18 episodi permette a Lynch, o almeno questo è quanto sembra da quel poco che abbiamo visto, di costruire un’antologia di visioni, una summa del suo cinema e della sua poetica, utilizzando la cornice della trama originale di Twin Peaks come base di partenza di un’avventura televisiva che si preannuncia assolutamente senza precedenti.

«It’s a cinema on a TV screen» dice Lynch, e lo è sotto molti aspetti: è ridefinizione del confine tra cinema e televisione attraverso un lungometraggio diviso in episodi che deviano dai consueti artifici televisivi e al tempo stesso li sfruttano abilmente, è un esperimento di libertà autoriale impossibile da realizzare coi vincoli della sala cinematografica, ma che cerca chiaramente di emanciparsi dal meccanismo dell’hype legato alla serialità contemporanea.

Per raccontare la diffusione del male che alberga neanche troppo sottotraccia alla normalità, questa volta David Lynch aveva bisogno di una metodologia più ibrida e più legata al momento storico: Twin Peaks è andato in onda in contemporanea in tutto il mondo senza anticipazioni, ha creato un’esperienza di screening a Cannes ex-post, ha messo gli episodi 3 e 4 a disposizione in online preview; il regista ha sfruttato quindi al meglio le possibilità offerte dalla visione multipiattaforma contando su una audience anch’essa ibrida, che mescola la fanbase della serie ai curiosi, ai lynchiani più appassionati.

Un sogno lisergico e coinvolgente che incanta e muove tutti i sensi dello spettatore (c’è da scommettere che se Lynch avesse avuto a disposizione l’Odorama, avremmo sentito anche la terribile puzza della Garmonbozia): un progetto sperimentale che richiede pazienza e coinvolgimento totale e che mescola generi e registri per regalare una visione che, almeno finora, è una continua sorpresa in un senso di randomness che convive con un patto sotteso tra spettatore e autore, accordo in grado di rendere questa esperienza disorientante ma mai respingente e soprattutto mai, davvero, casuale.

Autore: Eugenia Fattori
Pubblicato il 29/05/2017

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