Treme

La musica nera, la nascita del blues e poi del jazz e del rock, la forza del crogiolo di razze contro la finta purezza WASP, il sogno americano rincorso attraverso la fusione di tradizione e innovazione, la cucina e la musica come protesi dell’animo umano, le radici afro come componenti complementari a quelle europee nella formazione del popolo americano. Tutto questo e tanto altro ci mancherà ora che Treme, ultima straordinaria creatura di David Simon, è arrivata alla sua conclusione. Non si tratta di una serie qualsiasi, sotto ogni punto di vista, motivo per cui anche gli strumenti interpretativi tradizionali, risultano in un certo senso inadeguati ad analizzarla fino in fondo. Treme parla dell’America, del meticciato su cui si è formata, del lutto collettivo seguito all’uragano Katrina, della fatica a riprendersi e delle ferite che quel cataclisma ha portato con sé. Non solo. Oggetto d’osservazione è il clima culturale che si intreccia con la tradizione sino a diventare un tessuto unico, spazio socio-culturale da cui emergono fenomeni d’arte e costume peculiari come la musica e la cucina, veri e propri cardini dell’intera serie.

Se gli appassionati di Treme hanno avuto la possibilità di assistere alla sua conclusione devono ringraziare sentitamente l’HBO, emittente che non ci ha pensato due volte a rendere possibile questa vera e propria impresa. Era tutt’altro che scontato infatti che la serie arrivasse sana e salva al suo epilogo; gli ascolti bassissimi e i costi non proprio esigui (musicisti da pagare, numerose riprese in esterni) hanno minato sin dall’inizio la sopravvivenza della serie.

Tuttavia, se l’HBO ha la fama di essere la regina della cable television, il motivo sta proprio nella sua tradizionale difesa dei prodotti di qualità, quando si accorge di averne in casa. Treme, che sicuramente fa parte di questo novero, dopo tre stagioni di altissimo livello, arriva sugli schermi americani con una ministagione conclusiva di cinque episodi creata apposta per concludere tutte le storyline e dare una fine a questa sorprendente serie. Per queste ragioni la quinta annata appare leggermente diversa dalle precedenti, non solo perché tutto è stato compresso per rientrare in cinque ore di visione, ma soprattutto perché si presenta come una sorta di omaggio a quel che è stato, un lungo addio a personaggi che con gli anni abbiamo imparato ad amare e per cui abbiamo a lungo parteggiato. Le parole chiave infatti sono senza dubbio nostalgia e orgoglio: la prima rimanda a un’assenza che peserà tanto nei prossimi mesi, quella di una serie che, siamo sicuri, verrà con gli anni riscoperta sempre di più; la seconda riguarda il cuore vitale del prodotto, ovvero la forza delle tradizioni, dei valori e dell’identità che questo prodotto porta con sé.

A questo proposito, nessuna analisi di Treme può scindere in maniera netta forma e contenuto perché la prima è intrinsecamente intrecciata con il secondo e viceversa. La serie creata da David Simon e Eric Overmyer è l’esaltazione del meticciato, della cultura creola (per cui cucina e musica sono solo due delle cose più famose di un concetto molto più grande), ovvero della commistione di razze, di influenze, di spunti; l’apologia della differenza che viene esaltata attraverso il conflitto di idee, di visioni del mondo, di abitudini, proprio come in un confronto tra due sfrenati assolo al sassofono. Per una questione di tale mole e per rappresentare una città di questa portata, non poteva che essere adoperata una tipologia narrativa entropica e esagerata, fatta di una coralità di storie e personaggi che col tempo diventano autosufficienti, capaci di sopravvivere alla loro stessa mancanza, perché interni e perfettamente integrati in un universo che sta a metà tra realtà e finzione, anche perché messo in scena con uno sguardo che, attraverso la distorsione degli stilemi linguistici del documentario, esalta al massimo le proprietà di un’estetica che è squisitamente cinematografica. A questo proposito non ci sono dubbi che, se Robert Altman fosse stato ancora in vita, Treme sarebbe stata una delle sue serie preferite, o quantomeno, il prodotto seriale che più di ogni altro piega al medium televisivo ciò che l’autore di Nashville ha lasciato in eredità al cinema. È molto breve infatti la distanza tra questa serie e il film di Altman testé citato, non solo per l’orchestrazione corale di personaggi e storie intrecciate e in certi casi passeggere, ma anche e soprattutto per una visione della città come microcosmo culturale fondata su un’idea di vita pregna di musica fino al midollo, orgogliosa della propria cultura e delle proprie radici tanto da porle come sineddotiche di un’identità nazionale.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 06/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria