Transformers – L'ultimo cavaliere

Il Re è nudo! Ovvero l'operazione cinica di un Michael Bay ormai stanco, che inscena una dinamica di disfacimento coesivo a fronte di una narrazione che vorrebbe rimettere in riga la saga.

Michael Bay non voleva girare Transformers e non lo ha mai nascosto.

Quando Steven Spielberg lo chiamò per affidargli il primo capitolo della saga, la sua reazione fu quella di chi si vedeva affidato un concept poco interessante – un “silly toy movie” nelle sue parole – e dopotutto il trend dei robot giganti, poi proliferato pur moderatamente attraverso pellicole quali Real Steel e Pacific Rim, era ancora tutto da inventare. Eppure, nelle riunioni preliminari per capire se da quel materiale si poteva trovare qualcosa di buono, emersero delle potenzialità evidentemente care al regista di Armageddon. Che non è mai stato un narratore nel senso più tradizionale del termine, non un professionista del film che nasce e vive in sceneggiatura, quanto un inventore di forme: un radicale creatore di figure concrete che, attraverso una stilizzazione estrema, finiscono per tendere naturalmente all’astrazione.

Corpi maschili e femminili scolpiti, armi, soldati, elicotteri, robot, pianeti: le icone del Bay-pensiero sono lì, evidenti nella loro materialità, eppure rifinite al punto da svuotarsi di ogni concretezza per farsi puro segno grafico, al servizio di un’idea di messinscena-performance in grado di esaltarne la potenza cinetica. E, in questo senso, il concept del robot che è anche veicolo, del corpo metallico che è un non-corpo e allo stesso tempo riesce a occupare un doppio spazio (automa e alt-mode su ruote) era assolutamente perfetto, come il tempo ha dimostrato, per esaltare quel desiderio di segni visivi in continuo movimento e collisione perpetua che i quattro capitoli della saga hanno fino a oggi portato avanti con un radicalismo che ha pochi eguali nella Hollywood contemporanea.

Con Transformers – L\'ultimo cavaliere però un nuovo elemento subentra a scompaginare le carte: l’esigenza di una writer’s room che allinei quei segni sinora sparsi con grande disinteresse verso ogni forma di continuity, per riallinearli in una struttura industriale che ossequi la logica ormai imperante degli “universi condivisi”: un nuovo capitolo che rimetta insieme i pezzi del già fatto e si apra a svariate prosecuzioni degne di una catena di montaggio cybertroniana. E qualcosa, inevitabilmente, si inceppa: inizia per Bay una dialettica dentro e fuori la narrazione, che in potenza potrebbe riflettere quel doppio passo fra concretezza e astrazione, figlio del percorso sin qui perseguito, portando la saga letteralmente oltre se stessa. Da un lato, quindi, un affastellamento di scenari, retroscena, rivelazioni e ucronie che passano in rassegna momenti e elementi dei capitoli sin qui prodotti per aprirne il fronte narrativo e intrecciarsi a doppio passo con la storia e il mito dell’umanità; dall’altro la voglia di scompaginare ancora le carte, di cercare una libertà che, ora più che mai, sancisca il metodo-Bay, l’avvicendarsi di forme che fagociti e tra(n)sformi la narrazione.

Immagine rimossa.

Due gli elementi che rendono evidente questa conflittualità intestina: in primis la figura-cardine di Optimus Prime, che in sé riassume quella pulsione d’onore evocata in più punti del racconto. Un personaggio iconico e paradigmatico della saga, ancora una volta cardinale per lo sviluppo dell’intreccio, ma il cui ruolo è ormai relegato a quello di un comprimario di second’ordine. Quando, finalmente, lo rivediamo in azione, qualcosa non funziona più, i suoi classici motti suonano stanchi e quasi resistenziali, rispetto a una narrazione che è andata avanti e fatica a ricollocarlo. Optimus è il retaggio di un altro pensiero della saga che nel frattempo ha preso una direzione differente e lo respinge come un anticorpo buono osteggiato dal virus – e l’idea del lavaggio del cervello che ne muta la natura e lo cambia, sembra quasi lì a ribadire scientemente il pensiero.

Poi il momento delle spiegazioni, quando Sir Edmond Burton/Anthony Hopkins convoca Cade Yeager/Mark Wahlberg e Vivian Wembley/Laura Haddock per dare il via a quelle rivelazioni che raddrizzeranno la barra narrativa per permettere all’intreccio di svilupparsi. Si noti come Bay cerchi in tutti i modi di procrastinare il momento, inserendo continue gag che smorzano il crescendo, al punto che, quando le rivelazioni finalmente si palesano, la distrazione è in agguato, quasi sbeffeggiata dal robot-maggiordomo Cogman, che l’enfatizza forzatamente suonando l’organo per creare un “momento epico”. Dalla creazione di forme si passa a un nemmeno troppo velato boicottaggio di quanto si sta realmente raccontando, che ha il sapore di uno sberleffo tutto interno alle dinamiche hollywoodiane e alla pianificazione metodica dell’imperante metodo-Marvel.

Cosa allora non funziona in un’operazione così radicale e che certamente coglierà l’entusiasmo dei teorici? Che appare quasi necessaria nel momento in cui si commenta l’abbandono di Phil Lord e Chris Miller dal nuovo spin-off di Star Wars e Edgar Wright ricorda, a proposito di Ant-Man, che “ero pronto a fare un film Marvel, ma non credo che la Marvel fosse pronta a fare un film di Edgar Wright”?

Il cinismo con cui tutto è portato avanti e che abdica al lirismo da sempre presente nelle opere di Bay: film che, nel loro balletto astratto di corpi e iconografie, riuscivano comunque a riverberare una sincerità emotiva in grado di rendere epici i racconti con ammirevole naturalezza. C’è una tale metodicità nell’applicare questo nuovo (non) schema che il film finisce per non produrre forme, ma per risultare anzi residuale rispetto al già fatto, fagocitato da se stesso, stanco e annoiato. Anche quando solletica un intrigante sguardo sulla realtà dell’America moderna che non sa gestire la coabitazione fra razze differenti e delimita aree di appartenenza reciproca, sperando di risolvere tutto con le imposizioni e il gioco delle armi. Ma è più un contentino di sceneggiatura, appunto, ancora una volta lontano dal Bay-pensiero, smarrito come quei Transformers che, anche quando sono presenti in scena, appaiono ormai corpi estranei, cascami di una forma che non c’è più, come quel Cybertron che è ancora la loro casa ma non è più un pianeta. Un modo estremo per ribadire come l’addio annunciato tante volte, si renda ora inevitabile. Perseverare sarebbe davvero troppo.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 26/06/2017

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