Thor: Ragnarok

Scheggia impazzita dell'universo cinematografico Marvel, grazie a Taika Waititi il dio asgardiano diventa il baricentro di un'opera a strati sulla confusione tra apparenza e sostanza.

Impegnati com’eravamo a riflettere sul disegno generale del Marvel Cinematic Universe, avevamo forse perso di vista la natura peculiare della micro-saga dedicata a Thor: tanti ragionamenti sono stati spesi sulla continuity e l’autorefenzialità di un meccanismo narrativo dove le varie pellicole si puntellano a vicenda; e lo stesso vale per il sostanziale “spreco” di una formula supereroistica che agisce solo in relazione al fandom, alle citazioni, ai fumetti, e al cosa-è-successo-prima, ignorando la possibilità di usare le imprese di queste icone per raccontare anche i drammi e il presente del nostro mondo (ci hanno provato solo raramente, in Iron Man 3 soprattutto, guarda caso quello più odiato dalla community “ortodossa”). Poi arriva Thor: Ragnarok e ci mette di fronte al fatto che c’è anche altro, qualcosa che era sempre stato sotto gli occhi e che non avevamo realmente visto.

C’è innanzitutto un personaggio che è l’unico realmente distante dalla controparte cartacea: giovane, brillante, lontano dagli aulici tormenti dell’icona di Stan Lee e Jack Kirby, veicolo per un umorismo fanciullesco che si sposa alla cifra più epico-spettacolare, Thor è l’autentica scheggia impazzita di questo universo. Non dovrebbe stupire vista la sua natura divina, ma in realtà Thor è disfunzionale in quanto uomo. E i suoi film, il capostipite di Kenneth Branagh e il The Dark World di Alan Taylor, descrivono insieme a questo Ragnarok traiettorie inedite, dando forma a un’icona che si reinventa a ogni pellicola. Familiare e tormentato il primo, epico e di una cupezza fracassona il secondo, colorato e co(s)mico il terzo. Aggiungiamo alla ricetta un talento folle come il Taika Waititi di What We Do in the Shadows e il cerchio si chiude!

Thor: Ragnarok è quindi la perfetta conclusione di una trilogia che nella schizofrenia degli approcci ha trovato la sua ragione d’essere, e l’antitesi di quello che l’ortodossia chiede: non un climax apocalittico sulla fine di Asgard – pure presente - ma una scatenata sarabanda pop che passa senza colpo ferire dal serio al faceto, dal divino al mortale, dall’epico al cosmico. Aprendo in questo modo ulteriori possibilità: la parentesi spaziale, infatti, rimanda sia al passato cartaceo di Planet Hulk, che al futuro cinematografico delle Infinity War. Mentre l’andirivieni temporale tra l’inferno di Surtur, la nostra Terra, Asgard e Sakaar contribuisce a creare una logica dell’accumulo propedeutica a quello che è il cuore pulsante dell’operazione: il conflitto tra l’apparenza e la verità.

Il che ci riporta a What We Do in the Shadows e all’impossibile convivenza tra i cineasti umani e i sanguinari vampiri, raccontata attraverso la lente deformante dell’ironia: Taika Waititi accumula i significanti per restituire la confusione dei significati in un mondo dove l’apparenza trionfa sulla sostanza reale delle cose. Il regno di Sakaar è una grottesca metafora di un universo spettacolarizzato in cui annullarsi (per Hulk diventa infatti un’autentica panacea al disprezzo altrui), che fa il pari con l’Asgard di Loki fondata sugli inganni. La scena simbolica diventa così il fugace confronto nell’antro del Dottor Strange, in cui lo spazio cambia continuamente forma e “distrae” dal messaggio di pericolo pronunciato dallo stregone.

La struttura a strati diventa in tal modo una quest per l’eroe, che deve cercare di tornare all’essenza del suo essere: alla sua natura divina al di là dei monili usati per scatenarla (via i capelli, il martello, ma non la consapevolezza e il potere quindi); ma anche a cosa è realmente Asgard: perché l’inganno va al di là delle magie di Loki, è quello della Storia come l’hanno raccontata i vincitori, omettendo le parti sgradite con cui bisogna perciò tornare a fare i conti. E allora si potrà anche distruggere per ricominciare, perché si sarà compreso che non c’è realmente nulla da perdere se non la forma esteriore delle cose. Quella con cui Waititi gioca con divertita abilità, alternando umorismo e azione. E riuscendo – finalmente – a riportare anche diritta la barra di un cinecomic che ora è di nuovo capace di parlare del nostro mondo, mentre se la spassa nello spazio.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 30/10/2017

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