The Tree of Life - Extended Cut
Presentato nella sezione "Sconfini" di Venezia e presto in bluray grazie al notevole lavoro della Criterion Collection, la nuova versione dell'albero della vita non è un extended cut né una director's cut: è semplicemente un altro film.
"Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me."
(Lettera ai Romani, 7.19-20, edizioni Paoline).
A volte, quando rivedi un film amato dopo diversi anni, hai la sensazione che sia tutto un altro film. Non lo ricordavo così – ripeti nella tua testa – mentre realizzi che a cambiare sei sempre e solo tu, che i film ci scoprono nel tempo, in tutte le nostre trasformazioni. Ci ricordano perfino quello che eravamo e quello che abbiamo perso, quasi fossero i nostri resti, tracce mnemoniche di un altra vita. Il problema è se il film cambia con te. Se cresce, ancorandosi al presente, e non cessa di ripensarsi in un moto bulimico ed ininterrotto. Questo il caso di The Tree of Life – Extended Cut, perturbante in quanto familiare sconosciuto: non una director’s cut né un lavoro che recupera semplicemente le sequenze tagliate della versione theatrical, ma proprio un altro film reso possibile grazie al complesso e notevole lavoro della Criterion Collection.
Nell’epoca dei mash-up, dei rimontaggi delle opere d’arte, degli infiniti Psycho liberati sulla rete, Terrence Malick fa un passo oltre. Supera perfino Steven Soderbergh, regista vertiginoso nelle sue nuove teorie della visione. Sì, proprio Soderbergh, trasformista sempre all’ultimo film che rimonta capolavori altrui (2001 Odissea nello spazio, I Cancelli del cielo) facendone manifesti identitari. Malick parte invece dalla propria odissea interiore, dal film che inscena la nascita del sentimento – vero motore del mondo – portandolo fino alla fine del tempo – quando non ci sarà più nessuno a guardare.
Distante anni luce dall’idea di capolavoro, di film come oggetto sacro da venerare – e lontano da qualsiasi aura, da qualsiasi storia del cinema, tanto da esserne continuamente escluso – Malick sa che un film è un’opera liquida e in divenire, un soggetto inquieto ed errabondo. Quello che ha fatto in questi ultimi anni – non ci stancheremo mai di dirlo - è aprire i propri film al resto del mondo, cancellandone i set e le sceneggiature, liberando il cinema dalla sua macchina. Ha ricercato ossessivamente la realtà del movimento o, meglio, la realtà nel movimento.
The Tree of Life – ma tutti i prodromi c’erano già ne La sottile linea rossa e, soprattutto, in The New World – è divenuto la magnifica ossessione da cui sono scaturite le voragini successive. La solita vecchia accusa rivolta all’ultimo Malick, "sembra una costola di The Tree of Life – centra perfettamente il discorso. To The Wonder, Knight of Cups, Voyage of Time, Song to Song sono film in bilico tra paura e desiderio, alla ricerca di un miraggio – l’albero della vita – da ritrovare nei tormenti di una storia d’amore, nell’edonismo sfrenato di un mondo alla mercé del corpo, nella palingenesi in CGI. La mossa seguente era proprio quella di un rimontaggio strutturale dell’albero della vita. Bisogna pensare a The Tree of Life come a un ipertesto di partenza, a un bacino inesauribile da cui poter attingere ogni volta. Perché Malick non aggiunge semplicemente cinquanta minuti di scene mai viste, ma rimonta intrinsecamente il proprio film, cambiandone ritmo e andatura, eliminandone intere sequenze. Ma soprattutto ritorna sugli stacchi di montaggio, sulla durata interna delle inquadrature, sui singoli cut da cui lasciar sgorgare nuove visioni. Il regista texano mette così in scena tutti quei film che avevamo solo immaginato tra un taglio e l’altro del montaggio originale. Incarna pensieri tagliati e scene mancanti: ne è l’emblema quella famosa bambina che il giovane Jack scorgeva appena in classe. Nel film originale bastavano un paio di soggettive a farci identificare i precoci turbamenti della pubertà, la prima infatuazione amorosa. Malick, del resto, è sempre stato un regista sintetico che, nello spazio invisibile tra due inquadrature, inseriva il mondo intero. Qui la visuale si allarga, la bambina torna a popolare il film confermando l’intuizione di partenza: The Three of Life – Extended Cut è un’opera sul rimosso che torna a galla. Il rimosso, ovviamente, è l’immagine mancante del film precedente che qui viene riportata in superficie (quasi come se questa nuova versione fosse una seduta psicanalitica completamente sui generis).
Proprio così Malick dà vita a piste narrative che si aprono alla realtà quotidiana dei protagonisti, espandendola in un Heimat americano, tanto gigantesco quanto piccolo nel suo rigenerarsi come home movie di un’intera vita. Lascia che margini e periferie entrino nel film, realizzando un’opera più inquieta ed immanente, interessata ai movimenti interiori più che a quelli planetari. Recupera la continuità saturando gli spazi neri e colmando buchi temporali. Il cosmo, Sean Penn che erra nel deserto in piena deriva biblica, l’escatologia finale, perdono peso e tempo, mentre l’infanzia, i personaggi collaterali, gli snodi narrativi, tornano al centro del racconto. Perfino le voci fuoricampo danno vita a un gioco di ruoli, dove altri personaggi pronunciano le stesse frasi del film precedente. Emmanuel Lubezki interviene, con piglio maniacale, e ricolora l’intero film. Si aggiungono piste sonore inedite, si spalancano le tracce narrative: vogliamo parlare di quel bambino frustrato dal padre o di tutti gli argomenti a sostegno di una nuova teodicea?
In attesa di Radegund, questo è punto più radicale di Terrence Malick oggi. Quello che ci dice meglio di qualsiasi altro dove sta andando il suo cinema.
Potremmo immaginarci, a questo punto, nuove versioni dei film precedenti. Un cinema composto di scarti, immagini dimenticate e dormienti che tornano a nuova vita. Potremmo vedere un’altra sottile linea rossa, altri mille The New World. Potremmo incontrare Jessica Chastain in To The Wonder o Christan Bale in Song to Song e dimenticarci, alla fine, quale era l’originale. Magari, un giorno, tornerà addirittura il minotauro del leggendario Q. Del resto era già quello che prometteva Voyage of Time, con il suo montaggio definitivo (quello visto a Venezia) narrato da Cate Blanchett (il film della madre) e le vociferate altre due versioni: quella raccontata da Brad Pitt (il film del padre) e quella senza voci fuoricampo (il film dell’orfano). The Tree of Life – Extended Cut, in questo senso, assurge immediatamente a film del padre. A essere centrale è il personaggio di Brad Pitt, insofferente e insoddisfatto, in eterno conflitto tra il talento (la vera grazia di questo film) e il mondo (la vita quotidiana, l’ambizione, il successo, in una parola la natura). A lui sono dedicate alcune delle sequenze più struggenti e complesse dell’opera. Ci sono perfino dei momenti che sembrano viaggi nel tempo e nella memoria, flash improvvisi che estendono le radici del personaggio (compare addirittura il padre di Brad Pitt da giovane). L’intero film cambia prospettiva, inserendosi in uno spazio laterale. Suggerisce appena le sue visioni più eteree, rimane intrappolato nella Terra; conosce molto più diavoli che angeli (anche il personaggio della Chastain qui trova una forza concreta, inaspettata, quando pensa di trovarsi un lavoro).
Non a caso l’unica sequenza aggiunta di Sean Penn sembra uscita da Knight of Cups, con l’esplorazione della sua vita quotidiana: un susseguirsi di donne e immagini (Jack è già diventato il cavaliere di coppe). Intanto la narrazione si dilata: la nascita del male - la battaglia che tormenta quotidianamente il protagonista - si alimenta a dismisura. L’identità è ossessionata dallo spettro della morte. Ci sono più dolori, traumi e ferite, tra il funerale dell’amico morto in piscina e il taglio della madre che già conserva un’impressione di morte. “Anche tu morirai?” le chiede Jack, domanda che esisteva già nell’altro film, ma che qui si carica di presagi assai più oscuri. Arriva perfino un uragano che, per un attimo, sembra far crollare il mondo, suggerendo già una nuova vita o riecheggiando lo spettro delle tempeste cosmiche. La sequenza che traduce l’episodio delle pere di agostiniana memoria – quella del furto del vestito, del sapore del gesto proibito, della colpa e della vergogna scaturite dal peccato originale – viene espansa, facendoci percepire tutta l’estasi febbrile della tentazione.
Se questo film è la versione del padre, è anche quello in cui il conflitto senza fine – quello tra natura e grazia, padre e madre, carne e spirito – tende radicalmente verso la natura. Un film terreno più che terrestre, soggiogato dalle tentazioni del secolo.
Per questo le rappresentazioni iconografiche del caos tornano alla ribalta: le follie boschiane vengono riprese a tutto schermo richiedendo, nient’altro, che un atto di fede (la macchina da presa indaga il cammino di Orfeo ed Euridice, tornato già curiosamente alla ribalta in Twin Peaks – The Return).
E quando la famiglia O’Brien si trasferisce, parte un altro film che tanto somiglia al finale de I giorni del cielo. Una nuova vita ricomincia al college: Jack è cresciuto, il mondo continua, la narrazione insegue la vita nel suo farsi e disfarsi, nei suoi corsi e ricorsi (e si torna alla fine del mondo, alla storia universale come grande elaborazione del lutto. Tutto l’universo obbedisce all’amore, cantava Battiato: un dinosauro risparmia un altro per una compassione che precede il tempo).
The Tree Of Life – Extended Cut sembra ancora di più un appassionante romanzo di formazione, la confessione biografica di un autore onnivoro che tenta di riscrivere la propria vita, film dopo film. La materia del racconto non può essere fermata, in un eterno continua che è girotondo di suoni e di uccelli, andirivieni di quiete e violenza, ricerca incessante e fede tradita.