Star Trek: Discovery / 1x03 - 1x09

Le buone premesse dei due primi due episodi vengono confermate da una serie che miscela sapientemente atmosfere belliche e fantascienza avveniristica.

Per un bizzarro gioco di rimandi mi ritrovo a pensare al primo capitolo di Star Trek: Discovery partendo, curiosamente, dall’elegia del ritorno impossibile di Twin Peaks. L’ultima serie di David Lynch e Mark Frost è fondata sull’idea, tanto struggente quanto frustrante, che della Twin Peaks anni novanta non resti che uno specchio distorto e oscuro. Una traccia, un fantasma sedimentato nell’inconscio dei personaggi, celato oltre lo sguardo del tempo.

Discovery riesce nel miracolo di creare uno Star Trek diverso da quanto visto in precedenza. Eppure il cuore della serie rimane quale luce in fondo al tunnel, promessa di un futuro migliore. Come negli anni sessanta, Star Trek si fa metafora con cui leggere il presente, ma sovverte codici e stilemi narrativi della saga. Pensiamo all’equipaggio principale e alla nave ammiraglia che vengono mostrati solo dal terzo episodio; pensiamo al conflitto bellico che assorbe ogni capitolo - la guerra con il Dominio in DS9 era intervallata da svariati episodi più canonici; pensiamo al fatto che le ferite non si rimarginano a fine puntata, che anche i capitani possono morire, così come qualsiasi membro dell’equipaggio: nessuno è più al sicuro nell’universo. Pensiamo, infine, che i Klingon più che cattivoni interstellari sono un popolo disposto a tutto pur di preservare la propria identità.

Discovery si affida completamente a personaggi sfaccettati e ambivalenti, dove nessuno sembra essere realmente quello che è: dalla spia Michael Burnham che combatte perché sa che ha tutto da perdere a Saru, occhio alieno della serie, primo Kelpien nella Flotta costretto a confrontarsi con la paura iscritta nel suo DNA. Dal perverso rapporto di Ash Tyler con la Klingon che lo torturava (una sindrome di Stoccolma lanciata nello Spazio) a volti conosciuti eppure diversi come Sarek o Harry Mudd.

L’ombra ingombrante del passato insegue la Discovery a velocità curvatura: il sogno dell’esplorazione, il ricordo della prima direttiva, il miraggio della pace e del benessere sono l’inconscio, il grande rimosso della serie. È come se la luce di Star Trek fosse lo strato più profondo su cui intelaiare storie, volti, immagini, attratti irrimediabilmente dal vortice utopico di Roddenberry. Del resto la Discovery, nave ammiraglia della Flotta, è un’astronave da guerra che ospita però sogni e aspettative di un gruppo di esploratori. Pensiamo al personaggio di Stamets su tutti, uomo-motore in cui riporre le speranze per la vittoria della Federazione. Ufficiale disposto al sacrificio non solo per vincere la guerra, ma per permettere che tutto Star Trek possa esistere e tornare. Lo stesso capitano Lorca, che all’inizio sembra solo un militare indurito dalla guerra, conserva in sé la visione di un futuro diverso. Il suo sogno è Star Trek (ricordiamo quel bellissimo episodio di DS9, “Far beyond the stars”, in cui Benjamin Sisko immaginava che tutto Star Trek fosse il sogno di un gruppo di scrittori squattrinati di sci-fi anni ’50).

Puntata dopo puntata, Discovery inizia a essere scalfita da quel mondo, come se la luce di Star Trek rappresentasse di fatto il suo strato più profondo. E appena viene il sospetto che la guerra abbia preso il sopravvento, torna la fantascienza: l’episodio 1x07, splendido omaggio a Circolo chiuso di TNG, è l’esempio perfetto di una serie che bilancia l’orizzonte bellico con quello sci-fi, privilegiando sempre i rapporti tra i personaggi.

Arrivati all’ottavo capitolo sorge finalmente un’intuizione: forse lo Star Trek che abbiamo sempre conosciuto, quello del Prime Universe (e non della linea Kelvin di J.J. Abrams) sia in realtà il mondo da costruire. Il viaggio del capitano Lorca e del suo equipaggio è diretto là dove nessun uomo è mai giunto prima, ma bisogna prima attraversare il tempo, sentire il dolore, combattere la guerra e, ovviamente, sbagliare. E farlo con la stessa perseveranza, lo stesso sprezzo del pericolo, lo stesso animo ribelle di James T. Kirk. Come Michael Burham insegna, c’è sempre una seconda possibilità. Probabilmente l’intero obiettivo di questa guerra stellare è quello di ritrovarsi, faccia a faccia, con l’Enterprise, col Mito di Star Trek e la scoperta dell’ignoto (del resto Michael è sorellastra di Spock). Non a caso l’episodio nove si conclude come una sorta di remake di Star Trek: Voyager: uomini uniti nella stessa solitudine, smarriti nello spazio, senza orientamento, distanti dal mondo che avevano conosciuto fino ad allora. Lost in Space…e l’avventura riparte.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 18/11/2017

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