Song of Exile

Secondo dopoguerra, Manciuria. La storia di Aiko si intreccia a quella della figlia Hueyin, due donne dal destino di profughe in terra patria. Aiko è giapponese, moglie di un soldato della Cina Nazionalista, rifiutata da una figlia ancora bambina, ora laureata in Inghilterra. Un allontanamento vissuto come una sconfitta che non lascia segni sulla pelle. Una lettera avvisa Hueiyn del matrimonio della sorella, trasferitasi in Canada. Si lasciano le vie spensierate e il calore di un’estate appena giunta per ritrovare un posto in un nucleo familiare ormai eclissato. Basato su stralci di vita semiautobiografici, Song of Exile è un viaggio nel mondo. Macau, Hong Kong, Cina, Inghilterra e Giappone si rendono visibili per uno spettatore che sembra occupare il sedile di un Espresso.

Presente e passato si mescolano in flussi di memoria che emergono come lunghi flashback immersivi. Una papaya, un canto, l’eco di voci sono il richiamo per un tuffo nostalgico che ha la stessa forza oscillante dell’onda. Il vagare lento della macchina da presa documenta silenziosamente l’intreccio di pubblico e privato, da cui emergono le dinamiche di gente comune, sullo sfondo di luoghi toccati direttamente e trasversalmente dai contrasti di due popoli e dall’ondata migratoria. Lo spaccato delle vite di Aiko e Heuiyn si riflette nella struttura drammaturgica e tecnica della pellicola di Ann Hui, lasciando affiorare usi e costumi di due mondi contrastanti, uniti da un amore incondizionato e dall’occasionale condivisione di un perpetuo sentimento di estraneità. Madre e figlia riscoprono il tacito legame oltre il vincolo di sangue e insieme sperimentano l’esclusione e l’emarginazione di chi viene marchiato dalla sconveniente etichetta della diversità. L’isolamento che ne deriva è il nucleo di un universo tutto personale in cui si scava fino alle memorie più recondite. Song of Exile è allora l’immersione in un magma profondo e sconosciuto, il cui contatto lascia affiorare sensi che si credevano perduti, epifanici risvolti che non si attendevano e rivelazioni celate dietro maschere di durezza inespressiva. Il film si connota di uno stile saggistico e Ann Hui riesce a confezionare un emozionante dramma familiare a partire da una storia semplice e ordinaria, capace d’innalzarsi in un’atmosfera quasi d’incanto. Il vagare da un posto all’altro descrive l’urgenza di trovare un posto nel mondo, quando l’unica condizione riconosciuta è quella dell’esilio, un leitmotiv che attraversa l’intera pellicola. L’esperienza dell’emarginazione culturale corre parallelamente allo snodarsi dello spazio quotidiano di madre e figlia. Il matrimonio di Aiko la costringe ad abbandonare le sue terre per occupare un ruolo di diseredata in casa del marito, di cui non le è concesso acquisire il cognome, una tradizione che la Cina contemporanea fatica ad abbandonare. Il senso di estraneità colpisce tutto quello che circonda la donna, si autoalimenta e s’incorpora a oggetti, gesti e sguardi, fino a riversarsi nel mondo circoscritto della figlia, anni dopo, ormai lontana dalle proprie origini.

Song of Exile traccia i caratteri nazionali celati dietro la problematica del superamento dei limiti culturali, che emergono nelle parole e nei ricordi dei personaggi principali come una sorta di flussi di coscienza. Cina e Giappone acquistano un’importanza centrale nel rappresentare rispettivamente la figlia e la madre, salvo poi declinarsi in spazi ignoti volti a sottolineare tutta l’alterità che ognuna di loro sente nei confronti di un mondo cui non appartiene. Ann Hui profila un quadro cupo senza appesantire lo scorrere narrativo, delineando tematiche complesse in una cornice dalle sfumature delicate. Il conflitto tra dimensione interiore e dimensione esteriore si amplia a quello più personale tra madre e figlia, risolvendosi nell’immagine trascolorata di una Hueyin ancora bambina, protetta dall’amore incondizionato dei nonni. Il film riesce a trasmettere un senso di complementarità nel chiudere un cerchio cominciato con le parole trasognate della ragazza immersa in una Londra che le è estranea, circondata da monumenti che accentuano la sua diversità, accentuata ancora dalle note dylaniane di Mr. Tamburine Man. I ricordi della ragazza si scontrano presto con l’angoscia e la sofferenza di quelli materni, che finiscono poi per prendere il sopravvento. La sensazione di esule viaggiatore è sottolineata dalle frequenti immagini di mezzi di trasporto: rishò, navi, binari, autobus e biciclette si alternano in una visione che abbraccia luoghi dal fascino ignoto. Song of Exile è l’Odissea della giovane Hueyin nei meandri della sofferenza di Aiko, duplice esiliata: all’interno di una famiglia cinese che non la riconosce e straniera in terra patria, costretta a fuggire verso un mondo che si rivelerà ancora più ostile. Il ritorno alle origini si rivela come una mancata riconciliazione, evidenziando ora un altro tipo di esilio, quello di Hueyin, immersa in un universo che pur non respingendola, sembra ignorarla.

L’occhio sensibile della regista del recente A Simple Life si aggira attento tra tirannie familiari, incomprensioni, conflitti, amore e sofferenza, propagandosi da una dimensione personale a una universale. Lo sguardo compassionevole si fa carico di una visione etnografica che registra un processo di acculturazione attraverso l’esperienza di un esilio vissuto come perdita di identità. Esterna ed estranea alle dinamiche materne, Hueyin ne viene sommersa, ritrovando se stessa in uno spazio “altro”. La ragazza arriva alla riconciliazione con la madre e con se stessa solo riconoscendosi nella sua stessa marginalità. Formativa e parabolica, la pellicola disegna un percorso di crescita che dall’alienazione evolve nell’accettazione dell’altrove nell’altrove stesso. Da una prospettiva femminista, il film sembra articolare lo spazio allegorico della casa come originario legame tra madre e figlia, uno spazio che le allontana e le avvicina attraverso la compassione raggiunta con la comprensione, un sentimento familiare a tutte le eroine del cinema di Ann Hui. La rinegoziazione del rapporto contrastante tra madre e figlia modifica l’accezione stessa di “casa”, uno spazio né sociale né culturale, ma psichico ad un livello che tocca il micro e il macrocosmo, il privato e il pubblico. Song of Exile si rivela estremamente attuale nell’affrontare problematiche complesse come il senso di alienazione nell’era post-coloniale e l’impatto che le forze storico-sociali possono lasciare sul personale, che spingono lo spettatore a rivisitare gli spazi culturali e familiari di un popolo fino a ridefinirne il senso stesso, nell’affrontare filosoficamente la sensazione di appartenenza ad un luogo e ad uno specifico contesto in cui ci si può riconoscere. Una definizione che, in tempi di globalizzazione, tende a perdere i connotati originari, quando si è circondati da sguardi che sfocano su inconfondibili caratteristiche individuali per venir risucchiati nell’inarrestabile fagocitante folla contemporanea, ormai senza volto. Quando l’esilio si fa casa.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 18/02/2015

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