Sassi nello stagno

La storia del Festival del Cinema di Salsomaggiore Terme, spazio essenziale per un cinema altro, dagli albori alla dissoluzione

Quando è riferita al cinema, la parola “festival” evoca tendenzialmente un certo immaginario predefinito: la competizione, i premi, il red carpet, i divi che offrono autografi e sorrisi, insomma una vetrina glamour prima ancora che un’occasione di diffusione e produzione culturale. E probabilmente non a caso il Salso Film e TV Festival in principio aveva scelto di chiamarsi in modo specifico e diverso: Incontri cinematografici. Perché proprio l’incontro/confronto, se autentico, determina quel particolare clima, quell’humus prezioso nel quale la condivisione diventa ispirazione, possibilità concreta e fattiva di creazione. Questa manifestazione, dalla vita piuttosto breve (poco più di un decennio) ma intensa, ha rappresentato infatti uno spazio fondamentale per tutto quel cinema volto alla ricerca, alla sperimentazione e all’innovazione.

Luca Gorreri, parmense classe 1970, ne ripercorre dettagliatamente la storia nel suo documentario Sassi nello Stagno, intervistandone i protagonisti e gli estimatori: il direttore Adriano Aprà, il Vicedirettore Patrizia Pistagnesi, il Segretario Luciano Recchia e il critico Enrico Ghezzi. Un excursus cronologico che va dagli albori alla dissoluzione, portato avanti mescolando toni, ritmi e stili differenti, con asciuttezza e – a tratti – con ironia, senza cedere mai a indugi nostalgici.

Tutto nasce dall’esperienza di Film Studio 70 dove, nella Roma dei tardi anni Sessanta, si incrociavano passione cinefila e politica. Più che di un cineclub, afferma Aprà, si trattava di uno spazio dedicato al cinema sperimentale e d’avanguardia, forte di una programmazione attenta, ricca e corposa. Uno spazio che in qualche modo riusciva a generare dibattito, movimento, riflessione, tanto che Giuseppe Bertolucci, da Parma, propose ai direttori – Enzo Ungari e, ancora, Aprà - di organizzare un festival nello spirito del Film Studio 70.

Ed ecco che alla sua prima edizione, nel 1977, la neonata manifestazione cinematografica vanta già una retrospettiva su Wim Wenders con tanto di anteprima del suo Nel corso del tempo. Grazie all’acume critico di Adriano Aprà, sostenuto da Patrizia Pistagnesi e dall’organizzatore Marco Melani, nel corso degli anni viene selezionato un corpus di opere che va dal muto (Murnau, Griffith) fino agli esordi di registi che solo più tardi diventeranno di culto (ricordiamo Sangue Facile degli allora sconosciuti fratelli Coen). Nel 1983 l’ospite d’onore sarà niente meno che Jean-Luc Godard, che trascorrerà un pomeriggio insieme al pubblico per presentare il suo film Passion. E ancora il cinema di Jim Jarmush, Pedro Almodovar, Otar Ioseliani, Samuel Fuller, Nicolas Ray, Mike Powell, Kenneth Anger, Straub e Huillet transiterà miracolosamente per questa piccola cittadina termale, in un periodo in cui sono davvero pochi i contesti “festivalieri” italiani che scelgono di osare tanto.

I successi però non riescono ad eclissare i dissapori e le divergenze che man mano si vengono a creare tra chi dirige e organizza l’evento, da un lato, e chi lo finanzia e lo ospita, dall’altro. All’origine di questo fatto – spiega Recchia – c’è in qualche modo un equivoco di fondo: l’idea di un festival, appunto, che sia cinema popolare più che di ricerca, che sia anche e soprattutto divismo inteso come diretto richiamo per il grande pubblico, immediatamente traducibile – detto un po’ bruscamente – in un più rapido ritorno economico.

Quando nel 1989 Aprà rinuncia al suo ruolo perché chiamato da Lino Micciché a dirigere la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, si crea dunque un vuoto di potere che – racconta Patrizia Pistagnesi – viene di fatto colmato da personalità purtroppo piuttosto distanti dal mondo del cinema. La vecchia guardia viene completamente estromessa, perché l’idea è quella di rilanciare la manifestazione facendone, come è intuibile, un festival cinematografico di tutt’altro stampo; ma la prassi non sta dietro alla teoria, e nel giro di due anni del Salso Film e TV Festival non resta più nulla.

Sassi nello stagno però non è un requiem, rifiuta a priori la malinconia e il sentimentalismo, e neppure vuole celebrare o osannare: più semplicemente, è il racconto onesto e doveroso di una manifestazione che, come un sasso lanciato in uno stagno, ha smosso una superficie fino a quel momento piatta, propagando tutto attorno delle onde che sono, in ultimo, stimolo e input alla conoscenza. Più che un qualcosa da rimpiangere dunque, un esempio coraggioso e intelligente al quale guardare con fiducia per ipotizzare percorsi nuovi e audaci che restituiscano ai festival cinematografici il loro spirito più autentico.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 26/02/2017

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