Ritorno alla vita

Ritorno alla vita si situa a metà strada tra il melodramma e la fiaba morale, parla di un uomo e di un bambino intrappolati in un inverno dell’anima, in un letargo perenne.

La ragione principale della natura sfuggente e per certi versi respingente di Ritorno alla vita va rintracciata nel disinteresse con cui si pone nei confronti degli spettatori, ai quali viene negato il dolore che arde sotto la cenere. Un dolore che c’è ma che quasi non si vede, nascosto tra le pagine dei romanzi di Tomas, custodito con cura, sottratto agli occhi dello spettatore. Nel film occupiamo la stessa posizione degli amori di Tomas, vorremmo stare vicino all’uomo, condividerne le sofferenze, tirargliele fuori, viverle con lui, fino al punto da auspicare una reazione, qualcosa che possa scuoterlo. Ma ogni tentativo risulta vano. Ecco allora il falso movimento che traccia il film: si va avanti, passano le stagioni e gli amori e i successi. La vita continua, ma non per Tomas. Ad avanzare semmai è solo la sua opera letteraria, la sua scrittura, che vive momenti di straordinaria creatività. E mentre assistiamo alla sua crescita artistica, noi rimaniamo sempre lì, fermi a quel tragico giorno d’inverno in cui tutto è iniziato. Due tempi che non incroceranno mai le loro traiettorie: il tempo della scrittura (Tomas, che non a caso resta sempre uguale) e quello della vita (degli altri personaggi, che crescono, cambiano). Al contrario di tanti illustri predecessori, Wenders rifugge le soluzioni più facili e scontate, come ad esempio fare dell’elaborazione del lutto la prosa del proprio film, e prende invece la strada più difficile, quella della lenta dispersione delle forze. Si procede lentamente, ma non per accumulare tensioni, da rilasciare eventualmente nel finale, quanto piuttosto per disperderle lungo la via, poco per volta, ferita dopo ferita, ricordo dopo ricordo. Alla scrittura è affidato il compito di accompagnare questo processo di rinascita faticoso e sempre incompleto. Ma non è che un’illusione, perché manca l’altro con il quale condividerlo. Il gesto della scrittura, solitario e ripiegato, impedisce l’addio al passato. Condanna di una creatività infelice che si nutre della vita, o meglio di un ricordo, per quanto doloroso, senza riuscire a dare niente in cambio.

L’incipit dice tutto: per scrivere bisogna separarsi dal mondo, come un eremita, isolarsi in qualche rifugio tra i ghiacci, nella vana illusione di trovare la scintilla creativa. O almeno sembra pensarlo Tomas, costretto però dopo pochi giorni ad accettare l’ennesimo fallimento: appena poche frasi annotate su un taccuino, che non si tramuteranno mai in un romanzo. E poi arriva la vita, con i suoi imprevisti a cambiare ogni cosa, marchiando a fuoco il destino dello scrittore e stabilendo la temperatura dell’opera, pallida e ghiacciata come un lungo inverno senza fine. Come se il freddo di quel pomeriggio non fosse mai andato via, ma anzi avesse raggiunto il cuore dei personaggi, cristallizzando il loro dolore. Ritorno alla vita si situa a metà strada tra il melodramma e la fiaba morale, parla di un uomo e di un bambino intrappolati in un inverno dell’anima, in un letargo perenne. Solo un gesto d’amore, di calore può interrompere questo incantesimo. Un percorso lungo, faticoso, incerto, tutto giocato sulla trasparenza ingannevole di vetri e superfici, e su un’orizzontalità catatonica senza scarti o cambi di passo. L’insospettabile complessità del film sta proprio nel suo negare e negarsi qualsiasi appiglio che possa arrestare l’inesorabile scorrere del tempo e il conseguente dissolversi di ogni ipotesi di salvezza. Wenders non fa nulla per truccare le carte, non c’è nessuna verità da spacciare a buon mercato, nessuna risposta intelligente o intuizione brillante che possa cambiare le cose. Si sta nel film come nella vita in modo approssimativo, balbettante, passivo, come quando si assiste inermi alla vecchiaia dei propri genitori, o alla fine dell’ennesima relazione sbagliata. Spetta al cinema immaginare percorsi alternativi, unire ciò che è separato, ipotizzare un finale. La vita poi continua fuori campo.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 05/10/2015

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