Phoenix

Con l’olocausto che agisce come spettro fuoricampo, il nuovo film di Christian Petzold è una sofisticata riflessione sul riconoscimento di se stessi.

Soffrire, morire, rinascere e poi (forse) ricominciare a vivere.

Il nuovo film di Christian Petzold riporta su grande schermo lo spettro dell’olocausto attraverso il veicolo della chirurgia estetica. Il volto sfigurato di Nelly, sopravvissuta ad Auschwitz, è la traccia di una tragedia che non può essere superata né metabolizzata. L’immagine stessa del sopravvissuto è quella del corpo instabile, lacerato fin dalle fondamenta, condannato all’afasia di chi è già morto: spettro deforme che si aggira spaventato tra le rovine di Berlino, lontano anni luce da una vita che è stata deturpata. ”Io non esisto più” dice Nelly commentando il suo riflesso sconosciuto. Quella faccia ferita e offesa, testimone di orrori bestiali e inenarrabili, non è più conforme al volto gentile di una volta.

Il punto centrale di Phoenix è proprio questo: la difficoltà a riconoscere se stessi e la propria immagine all’indomani della fine del mondo. L’olocausto, fantasma ingombrante di un’apocalisse già avvenuta, è confinato fuoricampo, perché non è qualcosa che si può dire o mostrare senza essere violato o ridotto (un po’ come avveniva, con una consapevolezza maggiore e una raffinatezza ineguagliabile nello straordinario Tsili di Amos Gitai). Nelly racconta l’orrore del campo di concentramento solo una volta durante il film, ma è come se ancora non riuscisse a parlare, o meglio, se non potesse parlare. La parola è impotente di fronte alla catastrofe.

Petzold comprende che l’unico modo per raccontare lo sfacelo è quello di superarlo, indagando ciò che avviene dopo: quello che, con far claudicante, risorge dalle ceneri. Instaura così l’idea di un cinema costruito sulle rovine dell’umanità.

Dopo un intervento di chirurgia estetica, Nelly inizia a ricercare suo marito Johnny. Quando i due si rincontreranno lui non riuscirà a riconoscerla, individuando solo una certa somiglianza con la moglie. Diviene subito chiaro come Petzold faccia slittare il suo lavoro su un piano metaforico, fregandosene di ogni verosimiglianza a favore di un discorso più ampio e complesso sull’identità. Il meccanismo del film si esplicita una volta che Johnny svela il suo piano: per proteggere l’eredità della famiglia di Nelly chiede alla donna di assumere l’identità della moglie. La protagonista si ritrova così a interpretare se stessa, riscoprendo poco a poco l’identità perduta, come se per ritrovare la sua natura fosse costretta a recitare una parte.

Phoenix vive nell’attesa di un riconoscimento, del momento stesso in cui Johnny potrà capire che quella davanti ai suoi occhi è realmente sua moglie. Ma questo momento è continuamente negato, a favore di un’idea fisica interessata più alle trasformazioni identitarie che ai climax narrativi. Al centro dell’opera ci sono infatti le metamorfosi di un corpo prima stravolto e fiacco, poi alimentato progressivamente da una luce che dà di nuovo senso alla vita. Il riconoscimento più importante, d’altronde, non è quello da parte dell’altro, ma nei confronti di se stessi. Ricostruire un io, sollevandolo dalle macerie dell’umanità, come se si trattasse dell’edificazione di un personaggio teatrale.

Anche dal punto di vista della messa in scena, Petzold sceglie un impianto visivo assai statico. Si ha quasi l’impressione di assistere a uno di quei drammi da camera di una volta, a un film dagli echi fassbinderiani intriso di sfumature noir: qui l’illuminazione vive di contrasti accesi, finendo per soffocare gli interni. Perché non bisogna dimenticare come Nelly sia prima di tutta l’ennesima donna che visse due volte. Lei passeggia solitaria in ambienti che sembrano usciti da un’opera in technicolor (si pensi agli splendidi interni del locale che dà il nome al film). Si percepisce addirittura la grana della pellicola, in grado di rinchiudere il film all’interno di un cinema fuori tempo massimo. E’ forse questo il punto di maggior interesse e, specularmente, di maggior debolezza dell’opera. Il rischio è che l’impianto teatrale finisca per fossilizzare il tutto, negando alcune aperture che gioverebbero assai al suo equilibrio. D’altronde il film di Petzold rende eccessivamente cristallino ogni intento, ma non cade (quasi) mai negli stucchevoli eccessi di tanto cinema programmatico.

Phoenix nonostante queste trascurabili obiezioni, non è il feticcio morto e museificato destinato a un pubblico di nostalgici, ma quel film che si dischiude all’intelligenza di un’operazione a cuore aperto.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 22/10/2014

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