Adam Resurrected
Trauma, dolore e memoria in uno dei migliori film di Paul Schrader, interpretato da un eccezionale Jeff Goldblum.
Distante, per diversi aspetti, dai territori solitamente battuti da Paul Schrader, Adam Resurrected è una discesa a ritroso nel dolore, è l’elaborazione di un trauma, è un’elegia che indaga il potenziale - distruttivo più che salvifico – della memoria. Si tratta del racconto di un viaggio essenzialmente psichico ed emotivo, solidamente costruito attorno al corpo/volto dell’eccezionale Jeff Goldblum, qui nel ruolo di un famoso illusionista e clown che, deportato in un campo di concentramento, avrà salva la vita proprio grazie alle sue stravaganti abilità. Tuttavia il suo spietato e perverso “padrone” non vorrà soltanto un intrattenitore personale ma più esattamente un cane fedele, sottomesso e obbediente. La prima metamorfosi sarà dunque la quintessenza dell’umiliazione: Adam camminerà a quattro zampe e mangerà da una ciotola, contendendosi il cibo con il pastore tedesco del suo aguzzino.
La seconda metamorfosi è invece quella che, diversi anni dopo, lo farà ritornare uomo: nello sconfinato e ardente deserto israeliano, in una struttura dove vengono ospitati e curati i sopravvissuti all’olocausto afflitti da gravi disturbi psichici. Qui, però, il terribile trauma di Adam non fa altro che regredire al di sotto della superficie, nascondendosi senza mai sparire, inquinando in modo silenzioso e profondo il suo universo interiore per tornare alla luce – di tanto in tanto – con estrema virulenza.
L’elemento che scardinerà definitivamente questo apparente, fragilissimo equilibrio sarà l’arrivo di un bambino che – esattamente come avvenne per Adam – non è quasi più umano: ha un collare e una catena al collo, ringhia, morde e non riesce neppure a stare in piedi. Il nodo nevralgico del film è tutto in questo incontro/scontro di uguali, in questa specularità spaventosa e angosciante, dalla quale ripartire per affrontare e superare definitivamente gli spaventosi fantasmi della memoria, in una parola per resuscitare. Ritrovando, attraverso la solidarietà e l’amore, la propria perduta umanità.
Schrader compie una traiettoria precisa e netta, e allo stesso tempo estremamente insolita, per arrivare a parlare dell’Olocausto, perché quello che gli sta a cuore è essenzialmente ciò che avviene dopo. Si ispira, per quello che è certamente uno dei suoi film più riusciti, all’opera omonima dello scrittore israeliano Yoram Kaniuk. E se è vero che il regista si immerge completamente nella specificità della vicenda letteraria e nel preciso contesto storico descritto, tuttavia c’è un elemento peculiare che appartiene da sempre al suo cinema ed è, al contempo, il cuore pulsante della tormentosa situazione vissuta da Adam, ovvero l’elaborazione del senso di colpa. Che qui, va detto, non ha nulla a che vedere con il complesso retaggio di matrice religiosa (o meglio cristiana) che ritroviamo in diverse altre opere dell’autore americano, ma è piuttosto lo scotto che il protagonista si trova - ingiustamente – a pagare per essere riuscito a salvarsi dal campo di concentramento. Tuttavia, a quella che è nota come “sindrome del sopravvissuto” Adam dovrà aggiungere un’ulteriore, terribile lacerazione interiore, che amplifica in maniera sorda e insopportabile il suo senso di colpa, perché per salvare la propria vita ha accettato quella disgustosa metamorfosi che ha annichilito, inevitabilmente, la sua dignità di uomo e la sua integrità. E l’espiazione straziante di questo imperdonabile peccato passa tutta attraverso il corpo istrionico e vibrante del protagonista, un corpo che continuamente sviene, sanguina e si contorce, sempre a un passo dalla morte ma sempre pronto a tornare alla vita.