La tartaruga rossa

di Michaël Dudok de Wit

La parabola sull'amore e sulla vita del regista ed illustratore olandese Michaël Dudok de Wit.

la tartaruga rossa - recensione film

Da oriente ad occidente il vento della grande animazione attraversa i continenti muovendosi sulle ali del vento, scrosciando sulle onde del mare, soffiando sulla steppa russa. La grande onda di Kanagawa, xilografia di Hokusai, è l’emblema della contaminazione di due stili, o scuole, la pittura paesaggistica tradizionale, nata dall’unione dell’originario stile cinese shan shui (per quanto concerne la tematica filosofica della rappresentazione) e dello stile edonistico giapponese yamato-e, con la dottrina realistica occidentale, soprattutto di matrice olandese. Su queste rotte commerciali, nonché rette di contaminazioni artistiche e culturali tra due società così distanti e differenti (considerando che all’epoca lo shogun Tokugawa Iemitsu aveva intrapreso una politica autarchica sakoku), si è mossa una contaminazione pittorica che ancora oggi non smettiamo di apprezzare. Ed ancora oggi, su questa medesima rotta, si muove l’animazione contemporanea. Lo studio Ghibli, affascinato dai lavori corti del regista olandese Michaël Dudok de Wit - in coproduzione con la francese Wild Bunch – arriva a produrre il suo primo lungometraggio: La tartaruga rossa. L’alchimia che si viene a creare tra lo stile occidentale e quello orientale fa nascere una miracolosa prova d’animazione d’autore che narra la storia di un naufrago, che sospinto dalla stessa forza ed imperiosità dell’onda hokusaiana, approda su una non ben identificabile isola deserta. Tutti gli sforzi saranno vani per abbandonarla finché, dopo una lunga e snervante lotta tra il naufrago ed una enorme tartaruga rossa – che ricorda la stessa sfida già vista nel precedente suo lavoro corto The Monk e the Fish - quest’ultima si trasforma in una bellissima donna dai capelli rossi che diverrà madre di un giovane ragazzo nato dalla loro unione.

La malinconia e la ciclicità di un destino inevitabile in quanto percorso umano e biologico, racchiuso nel rapporto nascita crescita e morte, è il carattere distintivo del cinema d’animazione di Michaël Dudok de Wit. Non è un caso che la gentilezza dell’animazione e la profondità, nonché semplicità comunicativa, dei temi trattati dalla sua cinematografia abbiano affascinato una coppia come Miyazaki e, come soprattutto, Takahata. La tartaruga rossa è un condensato dell’animazione del suo stesso autore capace di raccogliere in un’unica forma narrativa la struggente malinconia contenuta già in Father and Daughter, la semplicità comunicativa attraverso la quale il contenuto veniva veicolato dall’animazione nei mini spot realizzati per la compagnia di telefonia AT&T, il grado zero del disegno e del condotto gnoseologico rappresentato in The Aroma of Tea. Il film è una’opera prima che riesce nel sublimare l’empatia già contenuta prcedentemente nei corti del regista, arrivando a definire una weltanschauung già suggerita, molto autoriale e comunicativa. Un film che non parla ma che risuona armonico come un lavoro di Tati, che non definisce una morale ma che suggerisce un’emozione, un’empatia in segni grafici, in disegni dal tratto essenziale che suggeriscono un percorso alla fantasia, come in un’animazione di Jurij Norštejn. Una parabola per grandi più che per piccini, che parla al cuore, che comunica con chi ha anni da spendere, da vendere, ancora da conquistare, con chi cerca di conoscere la vita, le sue evoluzioni, le sue cadute, i suoi abbandoni. Un film che ti accarezza l’anima, che ti ricorda che la vita e l’amore vanno sempre vissuti per dare un’ulteriore spinta alla vita stessa, un film che sprona a far superare l’abbandono, che ricorda all’umanità la sua forza e la sua fragilità, come quel monte in prospettiva che sta per essere annegato dalla Grande Onda.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 19/03/2017
Belgio, Francia 2016
Durata: 80 minuti

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