La storia di Jack e Rose

Rebecca Miller è uno di quei nomi che non rimandano subito a qualcosa di cinematograficamente noto; è una di quelle registe di nicchia, indipendenti, che solo chi va alla ricerca di un certo tipo di cinema e di un’estetica diversa, palesemente anti-hollywoodiana, conosce e può apprezzare, o almeno ammirare.

Classe 1962, figlia del celebre drammaturgo Arthur Miller, regista, attrice, scrittrice e sceneggiatrice, l’intellettuale Rebecca è forse meglio nota per essere la moglie di un attore superlativo e iconico come Daniel Day-Lewis. La sua carriera da regista (debutta abbastanza silenziosamente nel 1995 con il film Angela) non è fatta di grandi numeri o giganti passaparola mediatici, non rientra nel mainstream per successo ottenuto e nemmeno per stile, gusto o visione delle cose. Il suo infatti è un cinema che basta a se stesso, autoreferenziale, autoriale e indifferente a tutto ciò che riguarda i meccanismi e le aspettative del grande cinema americano, un aspetto questo che risulta chiaramente percepibile nel film che andiamo a recuperare oggi, La storia di Jack e Rose. Realizzata nel 2005 e uscita da noi direttamente per il mercato home-video, la pellicola è il terzo lavoro della regista dopo il già citato Angela e Personal Velocity – Il momento giusto (vincitore nel 2002 del Gran Premio della Giura al Sundance), e sarà seguita quattro anni più tardi da The private lives of Pippa Lee, sul quale ci soffermeremo il mese prossimo, in chiusura del breve e conciso momento di critica che Point Blank ha voluto aprire su questa talentuosa regista indipendente.

La storia in questione, ambientata negli anni ’80, è quella di Jack Slavin (Daniel Day-Lewis), ex ingegnere nel campo delle energie alternative, ex hippy idealista, che vive con la figlia adolescente Rose (Camilla Belle) in una comune da lui stesso fondata ma oramai abbandonata, in un’isola al largo della costa est degli Stati Uniti. L’uomo, malato gravemente di cuore, fa trasferire nella loro casa la sua neo-compagna (Catherine Keener) e i figli di lei, per avere un aiuto e un sostegno maggiore ma l’esperimento di convivenza si rivelerà più difficile del previsto.

La storia di Jack e Rose è un film intriso di nostalgia e di vecchi ideali hippy, di controcultura e di sogni infranti, di utopie ecologiste ed estetiche dure a morire. La regista è molto brava ed accurata nel rendere lo spirito residuo di un’epoca: la musica anni ’70 che attraversa e accende il film, (la reiterata I Put a Spell on You nella versione dei Creedence Clearwater Revival domina le sequenze principali), l’indugiare della macchina da presa su distese verdi, panorami incontaminati, fiori rosa acceso, le scene poco dialogate di vita agreste e semplice di Jack e Rose, il loro modo lieve, essenziale, di parlare, di pensare, così lontano dall’esplosiva civiltà dei consumi, donano a questo film un’atmosfera fuori dal tempo, fuori dal sistema, fuori dagli schemi cinematografici canonici. La Miller, sempre molto indipendente e sui generis nella scelta delle storie da narrare e del modo in cui narrarle, sceglie proprio suo marito per un ruolo estremo ed “emarginato” come quello di Jack, e non poteva fare scelta più azzeccata. Daniel Day-Lewis, sempre così devoto e immerso nei suoi ruoli, così capace di sprofondare anima e corpo in ciò che di volta in volta interpreta, diventa un perfetto figlio dei fiori giunto al termine di un percorso di vita utopico, un perfetto padre quasi innamorato della propria figlia, un perfetto difensore di cause combattivo ma mai eccessivo – non è un caso se durante le riprese del film l’attore abbia voluto vivere in isolamento rispetto alla moglie e al resto della troupe. Gli sguardi di Jack Slavin/Daniel Day-Lewis, i suoi sorrisi stupendi che lasciano senza fiato, l’approccio coraggioso alla malattia, il modo struggente di rapportarsi con la figlia con un tipo di amore esclusivo e isolante, forse sbagliato ed egoista ma dolorosamente consapevole di ciò, fanno del suo personaggio qualcosa di memorabile, di commovente e intenso per chi guarda.

Anche il rapporto padre-figlia in un contesto isolano e isolato come quello dell’ex comune in cui vivono Jack e Rose, viene sondato dalla regista anche negli aspetti più ambigui e ossessivi: Jack invita altre persone per abituare la figlia al prossimo, alla convivenza allargata, per aprirla a qualcosa di diverso da lui; Rose non ne vuole sapere ed è talmente ossessionata, “innamorata”, padrona esclusiva del padre da risultare perfida, quasi misantropa verso gli altri, una sorta di aliena padre-centrica.

Quando Jack, in preda ad una crisi di pianto, dirà: “ho rovinato lei per una stupida forma di snobismo”, percepiamo tutto il senso doloroso di un ideale degenerato, di un sogno esagerato e ormai retrogrado che ha perso il suo vero senso, la sua prima bellezza. Il film, poco conosciuto presso il grande pubblico, forse perché un po’ troppo “elitario” e autoreferenziale, o perché poco “altruista” verso le aspettative spettatoriali medie, è invece un lavoro generoso e intensamente bello per chi sa guardare ad un altro tipo di cinema, ad un’altra estetica registica i cui punti di forza risiedono in un altrove difficile da definire ma fortemente e piacevolmente percepibile.

Autore: Margherita Ciacera
Pubblicato il 01/03/2015

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