Noi
L'orrore e la metafora: Jordan Peele torna al suo horror "sociale" con un film rozzo ma potente, che ne mette in luce i difetti e moltiplica le potenzialità.
Il discorso attorno a Noi (Us) di Jordan Peele va preso alla lontana. Se il regista americano è, come sembra, destinato a essere il portabandiera dell'horror hollywoodiano nell'immediato futuro, è bene chiarire alcuni punti attorno al suo ruolo di autore, e al ruolo del genere stesso nella prospettiva da lui adottata. Sulla trama di Us nulla andrebbe detto, legato com'è il film al concetto di twist. D'altra parte, ogni tipo di considerazione che si muova al di sopra del plot sarebbe incompleta. Limitandosi a quanto desumibile dal trailer: Adelaide (Lupita Nyon'go) è rimasta traumatizzata in tenera età da una visione avuta in un labirinto degli specchi di Santa Cruz. In vacanza insieme ai genitori, si perse nella cadente attrazione sulla spiaggia (“Find Yourself!”), e vagando nel buio vide... se stessa. Trent'anni dopo Adelaide è adulta, e insieme al marito Gabe (Winston Duke) e i due figli adolescenti torna, riluttante, alla casa di famiglia nella località vacanziera californiana. La prima notte, un gruppo di inquietanti figure vestite di rosso assalta la casa con sadici intenti. Sono loro. O meglio, un gruppo di doppelgänger, versioni violente e animalesche di loro stessi, come quella che Adelaide vide da bambina tanti anni prima.
Esiste opera horror che non sia metafora di qualcosa? Ovviamente no. Ogni prodotto artistico-culturale, di qualunque genere, riverbera di significati altri rispetto al visibile. Di più, la pluralità di letture è forse la misura migliore per valutarne la complessità. In tal senso, l'orrore è da sempre cassa di risonanza psicanalitica per l'espressione di malesseri personali e universali; così come la fantascienza, per dire, mette di fronte allo spettatore la realtà presente attraverso una proiezione speculativa della stessa. Che sia voluto o no, che gli autori ci abbiano pensato oppure no.
Il discorso cambia nel momento in cui suddetti autori decidono di esplicitare la valenza simbolica del proprio lavoro, fornendo una “chiave interpretativa” a mo' di libretto di istruzioni. Così facendo, sottraggono l'opera alla sua dimensione “aperta”, riconducendola a una esplicitamente metaforica. Quanto mostrato viene spiegato, le implicazioni sotterranee vengono portate alla luce, e un prodotto potenzialmente complesso finisce inchiodato a una sola, univoca chiave di lettura. In una parola, il regista fa quello che dovrebbe essere il compito dello spettatore (e del critico): interpretare il senso del film.
Nell'horror contemporaneo, questo ricorrere alla metafora analogica è talmente radicato da essersi ormai incanalato in una scuola. “Elevated Horror”, secondo l'espressione coniata da alcuni critici americani senza senso del ridicolo; horror hipster, fighetto, pretenzioso, per i più sarcastici moviegoers. Jordan Peele è senza ombra di dubbio il re di questa forma di fiction scritta, pensata e prodotta per gente a cui l'horror non interessa. Da Babadook a It Follows, da A Ghost Story fino ovviamente a Get Out, e ora Noi: film il cui motore non è mai la rappresentazione dell'irreale, né le meccaniche inconsce della paura; piuttosto un “messaggio” che si vuol comunicare ad un pubblico (e a una critica) bisognoso che si faccia il lavoro di decodifica per lui.
Chiedersi se Us funzioni anche a prescindere dal suo apparato simbolico (si, lo fa – ed è il suo valore più grande) è dunque una domanda a trabocchetto: è lo stesso film a rimbalzare come una falena contro la non sottilissima critique di cui si fa paladino. Us vuole parlare di una cosa sola. Non c'è nulla da interpretare.
I doppelgänger di Noi non sono creature ambigue: l'idea del doppio brutale serve a Peele per innestare su una struttura molto convenzionale da home invasion la più ovvia, banale e già vista delle metafore sulle disparità sociali. Senza scendere in dettagli-spoiler (come hanno notato in molti, c'è un celebre special di Halloween dei Simpson da cui viene ripreso spunto, sviluppo e persino il twist finale), è un film che parla di Noi contro Loro, appunto, dove us (che è anche U.S.) è la società benestante del privilegio e them sono, beh, il nostro doppio “sotterraneo”. Un doppio disperato, gonfio di rancore, imitazione grottesca di ciò che noi siamo per diritto di nascita. Un'idea che ricorda in qualche modo una versione più rozza e retorica del cinema di Romero: qui non è la metafora in sé a stranire (gli zombi del maestro americano in fondo non avevano una valenza molto differente), ma l'urgenza di Peele di esplicitare, sottolineare, e in definitiva limitarne la portata simbolica, riconducendola a un rapporto uno-a-uno tra significante e significato. Un approccio che ha più della parabola che del film, un'idea di “fantastico con la morale” figliata da quel Rod Serling del quale lo stesso Peele si appresta a resuscitare Ai Confini della Realtà – e mai regista di reboot fu più azzeccato. Dunque, spiegoni a ripetizione (uno a metà, un secondo alla fine, entrambi a raccontare la stessa cosa), battute a pennarello rosso (la rivendicazione «Siamo americani!»), e molta paura di farsi capire, o di non farsi prendere sul serio
Eppure, nonostante ciò, Noi è bello. E il merito è proprio del suo regista. Perché rispetto alla infausta corrente critica di cui suo malgrado è stato eletto a messia, Us indica la presenza di un autore a cui il genere piace davvero. Di più, a differenza di altri campioni “elevated”, Peele possiede veramente il senso dell'eerie e del surreale. Se l'apparato simbolico, rozzo a livelli sconfortanti, fa di tutto per soffocare il film, l'occhio e la mano di Peele bastano a fare di Us un prodotto notevole.
Il regista si dimostra capace di gestire l'orrore attraverso non tanto il racconto (i ritmi e le meccaniche dell'home invasion sono rispettati senza guizzi), ma attraverso l'inquadratura pura. I doppelgänger sono il suo vero colpo: “mostri” estremamente sottoutilizzati al cinema, vengono resi attraverso squilibri di movenze, voci innaturali, demarcazione di alcuni lineamenti (occhi, bocca, denti) atti a creare lo squilibrio uncanny che li identifica. Un lavoro eccezionale richiesto agli attori, che rimangono l'arma principale in mano al comico Peele. La decisione, così orgogliosamente difesa dal regista, di utilizzare un cast di protagonisti all-black, rivela inoltre potenzialità cinematografiche talmente inespresse (il lavoro di fotografia sulla pelle nera nel buio è logicamente diverso da quello su attori bianchi: indimenticabile l'utilizzo degli occhi chiari di una bambina in una stanza scura) da farci rendere conto per la prima volta quanto fosse clamorosa questa mancanza etnica nel genere.
Il gran finale di Noi poi tocca livelli scenografici quasi kubrickiani: la resa estetica del mondo para-infernale degli Incatenati è potente, inquietante, e soprattutto non derivativa (a parte i conigli: dopo La Favorita, è il secondo film del 2019 in cui gli adorabili roditori simboleggiano dolore e rimpianti). Mettere in scena un'incubo che non ne ricordi nessun altro è l'attestato del regista horror capace. Sarebbe interessante a questo punto liberare Jordan Peele dall'onere di rivelare grandi realtà sulla società Usa, e lasciarlo libero di mettere in scena le proprie visioni senza bisogno di giustificarsi, e di giustificarle. Se al terzo film riuscirà a portare sullo schermo un'esperienza che non sia un temino su “il Razzismo” o “la Povertà”, potrà finalmente mostrare senza orpelli di cosa è capace.