It's not (any more) HBO, it's TV - Uno stato dell'arte sulla più prestigiosa delle TV via cavo USA

In occasione dell'uscita di ''Westworld'', un'analisi dedicata alla regina della televisione americana e alla crisi che negli ultimi anni ne ha minato lo statuto

C’era una volta la HBO regina delle televisioni a pagamento, quella che non voleva neanche essere chiamata televisione (“It’s not TV, it’s HBO”) perché intendeva essere qualcosa di più, qualcosa per cui era giusto pagare un quota mensile perché in cambio ti avrebbe restituito un palinsesto unico, coraggioso e innovativo, impossibile da eguagliare per chiunque altro.

Diciamolo subito: quell’identità non esiste più e si è radicalmente trasformata. Le cause sono molteplici come sono tanti i cambiamenti che hanno investito il sistema televisivo americano e hanno costretto tutte le emittenti a rispondere, adattandovisi nella maniera più virtuosa possibile.

Innanzitutto l’entrata in campo di nuovi player, che inserendosi nel solco tracciato dalla rete hanno iniziato a produrre serie televisive originali, ma anche la diversificazione dei soggetti in campo e in particolare l’arrivo degli over-the-top (OTT), le piattaforme online che escono dalla distribuzione e trasmissione televisiva tradizionale.

Naturalmente, se oggi parliamo di HBO come il soggetto che ha incontrato più difficoltà a riscriversi in un panorama in gran parte nuovo è anche perché si tratta di quello che aveva più credito da perdere, dall’alto di un trono le cui gambe ogni giorno vengono gradualmente erose dalla concorrenza. D’altronde, quando si hanno delle decisioni importanti da prendere non è sempre detto che si imbocchi la strada giusta e quando non lo si fa, le conseguenze possono dare luogo a un effetto domino che colpisce a più livelli; e in questo caso le politiche della rete hanno portato alla progressiva perdita di quell’unicità che la contraddistingueva.

Possiamo individuare addirittura un vero e proprio bivio – la divisione tra comedy e drama – che fa da spartiacque simbolico e in parte spiega gli esiti molto diversi della gestione dei programmi all’interno dello stesso canale.

Per quanto riguarda la prima categoria, sappiamo tutti quanto la HBO abbia lavorato con precisione, coraggio e professionalità, creando una serie di comedy in linea con quella produzione precedente che fede del suo brand un simbolo di qualità: Curb Your Enthusiasm, The Comeback, Girls, Veep, Silicon Valley, Ballers, Vice Principals e High Maintenance. La maggior parte di queste serie ha ottenuto un ottimo riscontro di pubblico, ma soprattutto quasi tutte hanno un’identità forte e ben definita, in linea con quella degli autori, e una carica innovativa che conferma la HBO come uno dei leader nelle produzioni di questo genere.

Dunque non è certo per sminuire il contesto comedy – anzi, la maggior parte delle innovazioni oggi in TV avviene proprio qui – che vale la pena analizzare con più attenzione il comparto drama, ma perché quest’ultimo è il punto estremamente problematico. Perché nel comparto drama HBO c’è una confusione tremenda.

Attualmente in produzione ci sono solo due show (più la novità Westworld): Game of Thrones e The Leftovers, di cui il primo terminerà tra due anni e il secondo è già all’ultima stagione.

Indipendentemente dal gradimento personale, è palese la differenza tra questa situazione e quella del 2004, quando il panorama era composto da The Sopranos, Six Feet Under, The Wire e Deadwood.

Game of Thrones è il fiore all’occhiello della rete ma anche un’arma a doppio taglio, che da una parte garantisce denaro, visibilità e fama per via di un successo planetario senza precedenti, dall’altra nelle annate meno felici è stata percepita come qualcosa di molto diverso dalla qualità da sempre privilegiata e difesa dalla HBO, una sorta di apertura ad un pubblico più ampio in cambio di principi un po’ più blandi rispetto a un tempo.

La problematicità di The Leftovers è molto simile: creata da Damon Lindelof (assieme a Tom Perrotta, autore del libro da cui è tratta), un autore abituato alla tv generalista e quindi a parlare alla più ampia fetta di pubblico possibile sacrificando la raffinatezza dei propri racconti, la serie è decisamente “annacquata” rispetto agli standard HBO per evitare di risultare troppo sofisticata agli occhi di alcuni spettatori. Un compromesso abbastanza deciso per la rete, accentuato dal fatto di non essere riuscita a sfondare negli ascolti e di aver ricevuto recensioni altalenanti, cosa assolutamente inaccettabile per il canale e inedita fino a qualche anno fa.

Nel maggio di quest’anno Michael Lombardo, presidente della programmazione di HBO, ha lasciato il suo incarico creando un vero e proprio terremoto all’interno dell’azienda. Le conseguenze più drastiche si sono abbattute su due dei drama su cui negli ultimi anni sono state investite la maggiori energie, sia sul piano economico che su quello creativo.

Uno dei due è proprio quel True Detective non ancora ufficialmente cancellato, ma sulla cui vita futura sono piovute delle nuvole nerissime che hanno portato alcuni esponenti della rete a dichiarare la serie sospesa fino a data da destinarsi. Le motivazioni sono abbastanza palesi, sebbene la loro analisi sia tutt’altro che semplice: la prima stagione della serie creata da Nic Pizzolatto è stata un successo notevole di pubblico e critica, anche per la carica innovativa data dal formato antologico; la seconda ha patito proprio quest’ultima caratteristica perché nel “ricrearla”, oltre a un cast meno accattivante per il pubblico, Pizzolatto ha puntato su un racconto molto più complicato, orientandosi verso un’audience meno ecumenica, più attrezzata a interpretare il discorso sul noir cinematografico e letterario che l’autore ha portato avanti. Spiazzata dalle importanti differenze tra le due stagioni e da aspettative di conseguenza non soddisfatte, la critica americana ha reagito stroncando quasi unanimemente la stagione e di conseguenza indebolendo il brand della rete.

L’altra grande batosta seguita all’abbandono di Lombardo è stata la chiusura di Vinyl, serie “battezzata” dai nomi di Martin Scorsese, Mick Jagger e Terrence Winter. All’altissimo costo della produzione non è corrisposto un altrettanto importante riscontro critico, complice anche una narrazione decisamente sperimentale, profondamente intrecciata con un discorso sulla musica dell’epoca di rara qualità. Se Vinyl è risultata una serie problematica è anche per la difficile amalgama con il resto della produzione della rete (e qui torniamo ad discorso fatto poco fa): se Game of Thrones e The Leftovers hanno significato un’apertura verso un tipo di show più fruibile per il grande pubblico, Vinyl mal si integra con lo stato presente ma anzi, ha segnato una marcia indietro verso la raffinatezza delle produzioni del passato. Il segnale di maggior debolezza di un’emittente che pareva invincibile sta nelle modalità con cui Vinyl è stata cancellata: la serie infatti, seguendo un modus operandi tipico della HBO (e che tanti altri soggetti produttivi hanno iniziato ad adottare) è stata rinnovata dopo il secondo episodio, ma a seguito dell’addio di Lombardo ha subito prima la sostituzione dello showrunner (via Terrence Winter e dentro Scott Z. Burns) e poi, finita la prima stagione, un’improvvisa cancellazione. Una decisione assolutamente inedita per la HBO che ha sempre fatto della difesa della qualità delle proprie serie e del rispetto per chi vi lavorava una marca distintiva di cui andare profondamente orgogliosi.

Va detto che Vinyl è stato solo il secondo caso di questo tipo, a dimostrazione che questa “crisi” non è totalmente legata all’addio di Lombardo ma ha radici nell’ultimo lustro.

Il precedente è legato a una serie del 2011, Luck, le cui somiglianze con Vinyl non sono poche, e sono sicuramente tra i principali responsabili di un riscontro di pubblico tra i più bassi della rete: un grandissimo showrunner (David Milch), attori di importante levatura (Dustin Hoffman, Nick Nolte) e un regista tra i più significativi viventi (Michael Mann) a dare l’imprinting estetico alla serie, un andamento della narrazione lontano dai frenetici ritmi televisivi e un tema estremamente ristretto (il mondo delle scommesse sulle corse di cavalli). Ciononostante, la serie fu rinnovata dopo la messa in onda del primo episodio, ma tra la stagione d’esordio e la seconda un evento senza precedenti – la morte di alcuni cavalli durante le riprese – fu la motivazione ufficiale data dalla rete per la cancellazione della serie. Lungi da noi mettere in dubbio il comunicato ed è assolutamente plausibile che una serie del genere possa portare a incidenti di questo tipo, tuttavia è lecito pensare che i rating bassissimi abbiano avuto un ruolo incentivante e che se questa stessa vicenda fosse capitata a Game of Thrones molto probabilmente non avrebbe comportato la chiusura della serie, visto il successo e l’importanza nell’economia della rete.

Arriviamo così al presente, in cui la HBO sta cercando di risollevarsi e rispondere alla concorrenza spietata che avviene su tre fronti: quello delle TV basic cable, quello delle premium cable (concorrenti diretti) e quello degli OTT. I primi, con in testa AMC ed FX, da ormai quasi dieci anni realizzano con successo prodotti di qualità in grado di convincere gli spettatori che non è necessario pagare una sottoscrizione alla HBO, perché loro sono in grado di offrire prodotto di livello non inferiore e lo dimostrano con show come Mad Men, Breaking Bad o Fargo.

Per quanto riguarda le premium cable, ci troviamo di fronte a un’esplosione di original series sempre più sperimentali, trasmesse da player rivali che le stanno tentando tutte per mettere in difficoltà HBO: Cinemax alza sul coefficiente cinematografico con una serie come The Knick; Showtime alza la qualità media (The Affair, ad esempio) e punta sui grandi eventi come il ritorno di Twin Peaks; Starz diversifica la proposta puntando sulle nicchie come quella del cinema indipendente con The Girlfriend Experience o su prodotti di grande prestigio come Outlander. L’ostacolo più grosso è rappresentato però dagli OTT, in particolare Netflix e Amazon, perché il cambio di paradigma tecnologico di questi soggetti è accompagnato da una radicale rivoluzione economica caratterizzata da una struttura produttiva e distributiva che, avendo entrate infinitamente maggiori (per via della diffusione globale e per una varietà maggiore di servizi offerti), comporta la possibilità di produrre e distribuire molte più serie originali rispetto ai concorrenti.

La reazione di HBO, pur non essendo energica come ci si sarebbe aspettati, sta arrivando attraverso alcuni progetti molto precisi, ma anche con la scelta (altrettanto programmatica) di non spendere più energie in produzioni non affidabili (vedi True Detective e Vinyl).

La linea guida di questi ultimi tempi sembra essere quella di “eventizzare” le proprie serie, sia quando si tratta di formati brevi – e in questo caso è più semplice – sia quando si tratta di narrazioni estese. La miniserie si presta perfettamente per questo ruolo in quanto può essere distribuita in modo abbastanza compatto e venduta appositamente come un evento, come è stato fatto in maniera eccellente con The Jinx l’anno scorso.

Le serie destinate ad essere più lunghe vengono gestite in due modi: il formato antologico, che consente di far ripartire ad ogni stagione la serie e con essa le aspettative del pubblico, oppure la serie lunga sulla quale costruire una fanbase il più possibile affezionata, e i due nuovi drama di questo semestre rispondono ad entrambe le categorie. The Night Of, venduta con un marchio di qualità stampato a lettere cubitali viste le personalità di Steven Zaillian, Richard Price e John Turturro, è un esempio perfetto del primo caso, essendo una miniserie disponibile a diventare una serie antologica (come lo show britannico di cui è il remake).

Westworld invece risponde al secondo, ed è la scommessa più grande, quella più difficile e rischiosa. Adattamento di un film di culto degli anni Settanta, la serie è segnata dal brand di J.J. Abrams e sviluppata dal guru della fantascienza televisiva Jonathan Nolan (noto nel campo per l’ottimo lavoro fatto su Person of Interest), e si propone di catturare un pubblico vastissimo grazie a una produzione magniloquente, che fin da subito viene venduta dalla stessa HBO come il nuovo Game of Thrones.

Nonostante la prima puntata andata attualmente in onda faccia decisamente ben sperare, non è ancora possibile sapere per certo se Westworld riuscirà o meno a diventare il successo sperato, ma per ora possiamo certificare il tentativo di ripresa della regina delle TV via cavo, che da un momento di grande flessione sta reagendo per riportare i suoi drama allo stesso livello in cui veleggiano stabilmente i suoi prodotti comedy.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 05/10/2016

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