I segreti di Wind River

Taylor Sheridan chiude la sua trilogia della frontiera passando dietro la macchina della presa, e firma così un western glaciale di rara potenza.

È considerato il terzo tassello di una trilogia composta da Sicario e Hell or High Water. Una trilogia scritta da Taylor Sheridan che, per quest’ultimo film, ha assunto anche il ruolo di regista, laddove nei due precedenti era al servizio dell’occhio di Denis Villeneuve e David Mackenzie. Una trilogia sugli ultimi, sugli emarginati. Ma soprattutto una trilogia sul confine, sulla frontiera. Un confine inteso non solo geograficamente ma anche eticamente. I segreti di Wind River (allucinante titolo italiano dell’originale e ben più sintetico Wind River) arriva in Italia con quasi un anno di ritardo rispetto all’uscita statunitense, dopo essere passato in anteprima al Sundance Film Festival e al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.

Wyoming. Inverno. Una ragazza è ritrovata morta e congelata da Cory Lambert, una guardia forestale. A indagare sul caso è chiamata l’agente dell’FBI Jane Banner, che si ritrova ad affrontare la doppia difficoltà di un caso complesso e di un ambiente climatico a dir poco ostile che la trova ampiamente impreparata.

Delle tre che compongono questa ideale trilogia, I segreti di Wind River è l’opera che maggiormente condensa quel senso di alienazione nei confronti del genere umano che traspariva con evidenza in Sicario e Hell or High Water. Una sfiducia che passa attraverso le storie spesso dimenticate di personaggi anonimi che cercano, con tutte le difficoltà del caso, di sopravvivere a se stesse. Si diceva del confine: Sheridan abbandona l’universo arido e polveroso del confine messicano per abbracciare quello estremo del Wyoming, una terra di nessuno immersa nel gelo e nel bianco della neve, in cui la riserva indiana si tramuta velocemente in frontiera essa stessa. Una linea di demarcazione mentale: la convivenza un po’ forzata fra gli indiani americani e gli americani; la convivenza fra un’agente dell’FBI che deve dimostrare qualcosa soprattutto a se stessa e un uomo che ormai sente di aver perso parte di se stesso. I segreti di Wind River si muove lungo un crinale folle e silenzioso, interrotto dalle magnifiche musiche di Nick Cave e Warren Ellis, un luogo dove l’isolamento diventa una dimensione talvolta paranoica, talvolta riflessiva, talvolta inquietante. Il bianco assoluto che tutto annulla, che tutto sembra cancellare. Ma il male e l’orrore riemergono, sempre.

I segreti di Wind River è un film sul confine di una morale ormai sgretolata. Quella di chi non crede più nel sistema e accetta di sacrificare la propria integrità in favore di una giustizia diversa, personale. Succedeva in Sicario, con l’Alejandro interpretato da Benicio del Toro, si ripeteva in Hell or High Water con il personaggio di di Chris Pine. Torna anche qui questo desiderio un po’ triste ma quasi necessario di forzare la contingenza, superare il limite, rinunciare alla propria integrità. Ma in tutto questo vorticare di odio e di violenza, di giustizia personale e di sconfitta morale, ciò che rimane è una desolante solitudine ben fotografata nell’immagine finale.

Taylor Sheridan, semiesordiente alla regia, firma un film potente che ripercorre un approccio simile a quello coeniano di Non è un paese per vecchi, o del più recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Un’opera che trova il giusto equilibrio fra lo spettacolo e l’introspezione, con squarci sullo squallore di un presente di assoluto nichilismo. E nel suo equilibrio ci regala anche alcune sequenze memorabili, come quella del confronto finale, tesissima come solo un certo cinema western è stato in grado di regalarci.

Autore: Andrea Fontana
Pubblicato il 29/03/2018

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