I Origins

Tra i colori dell'occhio umano reincarnato.

Ammiratore e lettore di Asimov e Sagan, Mike Cahill, torna alla regia con la sua opera seconda che segue il successo ricevuto al Sundance Film Festival con Another Earth. Miglior film al Sitges, I Origins, sembrerebbe continuare la sua personale visione autoriale della fantascienza. Figlio di quella versione meno ludica e più riflessiva del filone fantascientifico, che tra i padri può annoverare il Kubrick di 2001 ed il Tarkovskij di Solaris (solo per citarne due tra i massimi risultati raggiunti), Cahill sfrutta il genere di riferimento come un’appendice contestuale attraverso il quale poter riflettere sulle condizioni esistenziali della razza umana. Se con Another Earth, Terra 2, diventa lo specchio riflesso della specie, alternativa del nostro doppio che, in una seconda realtà, può vivere indipendentemente da noi seguendo una linea temporale e spaziale differente, con I Origins, il discorso sull’identità si muove sulla tangente della metempsicosi ricorsiva e animista di carattere puramente filosofico e religioso, perlopiù legato a discipline e culture asiatiche.

Il film racconta la storia di uno scienziato, Ian Grey (Micheal Pitt), impegnato nello studio dell’origine nell’evoluzione dell’occhio umano. Diviso tra due donne ontologicamente diverse, disposte agli antipodi dicotomici tra scienza e fede (la prima scienziata brillante e testarda mentre la seconda fedele all’idea animista e ultraterrena della realtà), lo scienziato dovrà combattere e riflettere sulla sua esistenza e sul suo lavoro, riconsiderando, attraverso la magica illogica dell’accadimento ultraterreno il suo metodo e la sua personalità deduttiva, matematica e materialista.

Partendo sempre dall’elemento umano e dalle sue relazioni con gli altri individui, il regista americano usa l’elemento fantascientifico per avanzare domande che ricadono sugli stessi individui che le formulano. Se Terra 2 è l’elemento attraverso il quale specchiarsi, guardarsi e potersi riconoscere con altri occhi attraverso destini alternativi, luoghi di realtà mancate tra scelte differenti in grado di riconciliare le mancanze della propria identità su Terra 1; in I Origins, saranno i colori e gli schemi dell’iride, inseriti in un database di classificazione mondiale dell’umanità, ad aprire spiragli di crisi identitaria e riformulazione del senso del reale. Lo scienziato Ian Grey sarà diviso tra le certezze classificabili ed accertate della scienza e le incognite della fede. Tutto il senso del film è racchiuso nella scena in cui viene riproposta la risposta data dal Dalai Lama in un’intervista dove si cercava di confutarne la fede proponendo scoperte scientifiche che spiegassero gli accadimenti ultraterreni ma, invertendo i soggetti e riproponendo la domanda, la scienza sarebbe pronta ad ammettere l’errore della prova approvata empiricamente e statisticamente di fronte ad un’accadimento sovrannaturale? Dalla risposta data dal Dalai Lama lui sarebbe pronto a farlo. Quanto la ricerca sulla genesi dell’occhio umano potrebbe essere limitata a certezze oggettive o quanto potrebbe aprirsi ad interpretazioni sulla quantità di forme e mondi riflessi dalle frequenze di luce, di cui l’occhio umano riesce a percepirne solo una piccola parte dell’intero spettro?

Immagine rimossa.

L’occhio usato come diaframma metaforico tra il conosciuto e l’inconoscibile, il quantificabile e l’infinità sintetizzata nella mappatura dell’iride. Per Cahill la fantascienza è implicita nell’animo umano, è il punto di partenza per una riflessione intima sulle possibilità del singolo individuo di cambiare il suo passato, come in Another Earth, oppure come sinonimo di eterna contrapposizione tra trascendenza e scienza, come in I Origins. Il suo sguardo è sempre indulgente e delicato quando si posa sui suoi personaggi, accarezza le loro anime in punta di piedi e con una selezione musicale sempre giustificabile e ricercata. Sia Terra 2 che l’unicità dell’iride umano sono pretesti attraverso i quali poter discorrere, e filosofeggiare, sul significato dell’esistenza. Il regista sembra ricordarci che non occorre atterrare su un pianeta sconosciuto e dimostrare la fantascienza ma usarla per germinare un quesito totalmente umano. La fantascienza è nel piccolo mondo quotidiano invaso da piccoli espedienti fantascientifici che diventano, attraverso i rapporti umani, delle grandi domande esistenziali. Film delicatissimo, privo del bisogno di stupire o di spiegare, film incredibilmente vietato ad un pubblico minore di diciassette anni. Titolo giustamente premiato come miglior film al Sitges di quest’anno.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 31/12/2014

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