Far East 2015 / Sara

In continua navigazione tra i generi, Herman Yau cerca di raccontare un dramma dai forti rimandi sociali ma non riesce a controllare la materia trattata

L’inizio di Sara è tra i più duri, una violenza domestica esercitata da un patrigno sulla figlia che inquadra subito il film di Herman Yau in una prospettiva drammatica priva di compromessi. Da quest’atto terribile prende il via la storia, il ritratto appassionato di un personaggio contraddittorio e ricco di fascino, una bambina soggetta ad abusi che fuggita di casa diverrà prima una senza tetto e poi una talentuosa giornalista d’inchiesta. La sua odissea viene raccontata da Yau con due linee narrative, il presente e il passato, nelle quali si intreccia la relazione che Sara ha avuto da giovane con un membro importante del Ministero dell’Istruzione (Simon Yam) e la sua attuale battaglia per raccontare una storia di prostituzione in Thailandia.

L’insieme dei percorsi traccia un quadro complesso tanto dei personaggi coinvolti quanto del contesto in cui si muovono, un paese afflitto da violenze domestiche, prostituzione e corruzione delle alte sfere con collusione dei media. Spostandosi tra Hong Kong e Thailandia, tra dramma sociale e giornalismo d’inchiesta, Sara è sicuramente un piccolo ma importante film, il cui successo in patria mostra come sia ancora possibile ottenere attenzioni dal grande pubblico anche affrontando tematiche prettamente locali in ottica drammatica. Tuttavia la sceneggiatura è davvero tanto ambiziosa, cerca di unire tra loro aspetti diversi e non sempre riesce a mantenere il controllo della situazione.

Interpretata con intensità e impegno da Charlene Choi (star di cinema commerciale per la prima volta alle prese con tematiche simili), Sara si lega nel corso del film al personaggio di Simon Yam, un rapporto che iniziato come scambio di favori sessuali per appoggi politici ed economici diviene una vera e propria relazione adulterina. Più che il parallelo con la giovane prostituta thailandese che Sara vorrebbe aiutare, è questa relazione il cuore di maggior interesse del film, un legame che tocca corde delicate per come mostra un padre di famiglia e uomo politico importante esporsi in cambio di prestazioni sessuali. La compravendita però evolve confermando l’intenzione di Yau di mantenere un tono chiaroscuro per tutto il film, uno sguardo intenzionato a sollevare i vari aspetti della storia raccontata senza esprimere giudizi netti né addolcire nulla. Un’ottima prospettiva registica, senza dubbio, cui purtroppo non corrispondono né una messa in scena né una sceneggiatura pienamente all’altezza.

In Sara Yau torna a lavorare con la sceneggiatrice che l’aveva accompagnato già in Ip Man: The Final Fight, ma l’alchimia tra i due non riesce a restituire quella grazia e delicatezza narrativa che faceva del film precedente il migliore della saga dedicata al maestro di Bruce Lee. Sara infatti presenta diverse soluzioni registiche davvero di dubbio gusto e non riesce a reggere per tutta la sua durata, specie per quanto riguarda la seconda parte in Thailandia e il generale parallelismo messo in piedi. Ad aggravare il risultato finale è poi impossibile non citare la pessima resa della fotografia, ennesimo sintomo di una problematica generale, ovvero la difficoltà che ancora ha molto cinema commerciale di Hong Kong a gestire efficacemente l’addio alla pellicola.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 29/04/2015

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