Elvis and Nixon
Sulla falsariga di uno scontro fra titani, Liza Johnson rievoca faccia a faccia due icone del loro tempo ed eleva a mito una pagina di storia americana.
Elvis & Nixon è prima di tutto una storia esilarante raccontata da Liza Johnson in modo giocoso e crepuscolare, la ricostruzione a metà strada fra il biopic e la commedia sofisticata dell’incontro tra l’icona rock più carismatica al mondo e il Presidente americano meno rock ’n’ roll che ci sia mai stato. Ma sotto questo clamoroso faccia a faccia (celebre ma poco documentato, immortalato solo da una foto che per decenni è stata la più richiesta degli Archivi Nazionali) si intravede al contempo il tramonto di un pezzo di Storia americana, una nazione in procinto di un enorme cambiamento, che proietta le proprie crescenti paranoie sul ’pericolo rosso’, il disagio giovanile per le strade, la diffusione della droga, mentre la guerra in Vietnam infuria su tutto il sud-est Asiatico: gli anni ’70 dei costumi ridondanti, degli hippies e delle ossessioni per le armi, che di lì a poco sarebbero stati travolti dallo scandalo Watergate nell’agosto del 1974.
In questo scarto - dove convivono le veridicità dei personaggi insieme ai fatti noti - si insinua leggiadro il film della Johnson: attraverso una realtà di cui si sono perse le impronte, già allora narrazione romanzata, prima ancora di farsi mistero ed oggetto di speculazione. Per dar vita a una riflessione sulla decadenza di un Paese e la sintesi pop dell’incontro straordinario tra due icone dell’immaginario collettivo. Due anime apparentemente opposte, eppure entrambe amanti conservatrici di un’America colma di arroganza, che rifiutava il comunismo e odiava perfino i Beatles. Fino ad (auto)proclamarsi simboli e ’tutori’ del loro tempo.
Con disincantata ironia la Johnson evita ogni artificio retorico per scommettere sui suoi attori, sulle performance esaltate e ora malinconiche, a testimonianza di quanto la verità possa a volte essere più assurda della finzione. Sembra di guardare al più grande incontro di pugilato di tutti i tempi, che si riflette in un match attoriale di gran classe, schiacciato dai complessi di protagonismo ma ben lontano dalla raffigurazione acida di uomini potenti o traboccanti di fragilità. Perché tutto, in Elvis & Nixon, poggia sui divertenti sketch in stile sit-com fino all’entrata in scena dell’incontro allo Studio Ovale. Tra i corridoi della Casa Bianca, in un momento di piena transizione storica, ecco la commedia divenire farsa sul potere e, solo allora, il cinema da ’camera’ trasformarsi in un testa a testa mentale a colpi di bromance e illusioni politiche. Senza mai venir meno alla chiave satirica Michael Shannon e Kevin Spacey (che cortocircuita il Frank Underwood di House of Cards) regalano un tandem dall’alchimia scoppiettante, che affonda nella realtà per poi prenderne le ’distanze’ comiche: di stampo vagamente pirandelliano, scontro dopo scontro e lungo una fonte sgorgante di sincere risate. Come l’Elvis di Shannon dal carisma stralunato, un mito già avviato al suo declino inglorioso (per depressione e abuso di farmaci) ma ancora in grado di sprigionare tutta l’aura e l’imponenza scenica propria di un dio sceso sulla Terra. A fargli da contraltare il Nixon di Spacey, più caricaturale che camaleontico, terrorizzato dalla controcultura e in ’scacco’ ad una giovane figlia innamorata del Re del rock. Due pesi massimi - all’apice delle rispettive carriere - lanciati verso un duello fra titani, qui sul filo sottile che divide l’umorismo dalla demenzialità.
Del resto Elvis & Nixon non è un vero docu-drama, non racconta l’ascesa o la carriera di una star dello star-system né vuole tracciare un ritratto complesso che resti indelebile nella memoria dello spettatore. Semmai, il suo, è un intrattenimento all’insegna del divertimento, tanto calibrato sulle affinità del cast quanto privo di qualsiasi pretesa. Una scelta rischiosa però alla lunga vincente; quasi si potesse compensare la scarsa profondità psicologica con il solo potere degli sguardi e della gestualità attoriale dei suoi protagonisti. Rintracciando nell’assurdo la dimensione divinistica della celebrità (sia in campo politico che di spettacolo). E dunque, facendo del biopic una riflessione sulla società delle immagini e sugli eroi tragici che, loro malgrado, finiscono col fare la storia. Incastrati fra il senso del ’distintivo’ e le cronache del mondo, prigionieri del loro stesso mito.