Dossier H. P. Lovecraft / 1- Cthulhu

Dan Gildark costruisce un piccolo ma riuscito ritratto del mondo lovecraftiano, tra omaggio e rilettura personale.

Né si deve pensare che l’uomo

sia il primo o l’ultimo dei padroni della Terra.

Gli Antichi furono,

gli Antichi sono,

gli Antichi saranno.

Necronomicon

Quale modo migliore per aprire il viaggio che Point Blank ha intrapreso nelle lande dell’incubo di Howard Phillips Lovecraft, se non rifarsi ad uno dei nostri più grandi narratori di genere, ovvero quel Valerio Evangelisti che come pochi ha saputo cogliere e rielaborare l’immensa eredità dello scrittore di Providence? In particolare torna utile partire dalla definizione che il creatore di Eymerich dà della fantascienza, vista come “quel filone della letteratura popolare che situa le proprie storie nel contesto dei sogni e degli incubi generati dallo sviluppo scientifico, tecnologico e socio-economico di un’epoca data”.

Storie che esplorano il contraltare del progresso quindi, tra le cui pieghe crescono ansie e timori che arrivano a nutrire mostri. Partire da questa limpida definizione ci porta a considerare il lavoro di Lovecraft dall’interno di una prospettiva leggermente meno scolastica, nella quale possiamo evidenziare quel rapporto inalienabile con la scienza e il progresso in senso lato. Lovecraft nasce negli ultimi anni dell’era Positivista, in un ambiente che vedeva nel controllo e nella catalogazione ordinata l’agire naturale con il quale approcciarsi e relazionarsi al mondo. Capire e vivere attraverso e grazie alla scienza, alla ragione. Ma nel corso del primo Novecento immani saranno gli attacchi a questa visione, molti dei quali fatali: la casualità apparentemente anarchica introdotta dalla fisica quantistica, lo svelamento di pulsioni e tensioni incontrollabili annidate nella psiche, la manifestazione di una mostruosità umana creduta estinta dalla presenza illuminante e salvifica del sapere razionale. Ecco quindi la matrice sotterranea del lavoro dello scrittore, un manifesto grido di orrore per il crollo delle certezze e la nascita dell’alienazione moderna. Tornando alle parole di Evangelisti, pubblicate nell’articolo “Attualità di Lovecraft” presente sul quinto numero della rivista Dada: “Lovecraft produce allucinazioni rarefatte, in cui ali membranose e mucillagini sono allusive dello smarrimento esistenziale in un mondo senza calore e senza significato, come forse era la terra quando vi regnavano i Grandi Antichi, ma come certamente è la società nell’era – ai tempi di Lovecraft incombente, oggi effettiva – della reificazione totale”.

Da questa sfera socio-culturale spostiamo su un altro aspetto, solo in apparenza di poco conto. Quanti sono gli scrittori, soprattutto di genere, che hanno avuto il lusso di divenire aggettivi? Bram Stoker, Mary Shelley o lo stesso Poe non hanno mai goduto di tale privilegio neologistico – e quindi nato nella lingua, da vedere qui nella sua accezione di strumento di condivisione spontanea. Racconti, film, canzoni, giochi, molti oggi sono i prodotti culturali lovecraftiani, spesso visti nella carriera di un artista di genere come tappa obbligata di un inevitabile confronto e omaggio. Ma perché la cultura di oggi è tanto lovecraftiana? Perché i suoi incubi raccolgono così bene le ansie del loro secolo?

A sentire ciò che dice di lui John Carpenter, nella sua introduzione alla graphic novel Lovecraft pubblicata per Vertigo, ciò che racconta e rappresenta Lovecraft è il male nella sua più pura, tentacolare, lucida e viscida accezione. In una parola sola, primordialità. Non stupisce quindi come i complessi e stratificati miti di Cthulhu appaiano oggi non solo mitologia attuale e potente ma anche terreno di fertile ripresa artistica. Che si parli di musica o letteratura, cinema di mockumentary o fiction. O più semplicemente horror indipendente, come è il caso di un piccolo ma valido film intitolato semplicemente Cthulhu.

Girato nel 2007 dal’esordiente Dan Gildark, sceneggiato dal regista assieme allo scrittore e poeta Grant Cogswell, il film è stato presentato al Seattle International Film Festival ma è uscito da lì senza alcuna distribuzione. Reperibile solamente in rete, Cthulhu appare come un lavoro forse controverso e non del tutto riuscito, ma sicuramente meritevole di essere recuperato e portato a maggiore attenzione.

Ambientato sulla costa del pacifico settentrionale – quasi agli antipodi del New England, ma nonostante ciò in un luogo perfetto, Astoria, la più vecchia città statunitense costruita su quell’oceano – Cthulhu a dispetto del titolo si rivela un riadattamento, peraltro abbastanza libero, di un altro racconto del ciclo, La maschera di Innsmouth. La storia è quella del trentenne Russ, professore universitario costretto a tornare per il funerale della madre nella sua cittadina di origine, sita su un’isola adiacente alla costa. Lì l’uomo ritroverà l’affetto della sorella e l’ostilità del padre, sacerdote di una setta che non ha mai accettato la natura omosessuale del figlio. In pochi giorni Russ si troverà immerso in quella realtà che a lungo ha cercato di dimenticare, e grazie a stralci di ricordi e ai racconti dell’ubriacone Zadok Allen, intuirà il segreto della cittadina, e la vera natura di quel rapporto ambiguo e viscerale che essa ha col mare. Come è evidente al lettore, Cthulhu non è un vero adattamento del racconto, ma più che altro una rielaborazione dello stesso al fine di creare qualcosa di nuovo, più aderente all’oggi seppur fedele nei temi chiave.

La prima cosa che colpisce nella visione di Cthulhu è la consapevolezza autoriale con la quale viene costruito il racconto horror. Dominato da una fotografia plumbea e muschiata, il film fa uso di due strumenti in antitesi tra loro, la ripresa lunga e il montaggio, per rappresentare e scindere la realtà fisica da quella mentale. Per seguire le indagini di Russ infatti Gildark ricorre quasi regolarmente al long-take che, realizzato con una camera a mano minimante traballante, crea con i suoi movimenti interni l’effetto di semi-soggettive dallo sguardo onnisciente, poste perennemente alle spalle del protagonista. Quando invece la narrazione si spinge nella dimensione del ricordo e dell’allucinazione troviamo un uso più intenso del montaggio, a volte anche in jump-cut, a conferma di come esso sia lo strumento cinematografico più vicino al processo mentale. Incubi improvvisi e immagini oniriche dominano infatti i sogni di Russ, dando spazio a quella dimensione di terrore ed angoscia fondamentale in Lovecraft.

A riguardo c’è un aspetto dell’adattamento del quale dobbiamo dare merito a Gildark, ovvero la scelta di evitare manifestazioni mostruose evidenti. Se ad un primo momento questa strada può sembrare eretica per il fan, la si apprezza meglio se si riflette sulla natura dell’orrore in questa narrativa. Una delle differenze principali tra il terrore di Poe e quello di Lovecraft è la locazione del mostruoso; per Poe l’origine della follia e della perversione è solitamente interna, mentre Lovecraft al contrario esterna queste ansie in mostri e divinità concrete, per quanto sempre insondabili e indescrivibili. Quando però approdiamo al cinema questo senso di indicibile alterità rischia di venire meno, di essere appiattito da una soluzione visiva che, per forza di cose, dà all’orrore una forma definita che non ha e non gli appartiene, perché la nostra mente non è in grado di metabolizzarla. Per questo funziona la scelta di Gildark, grazie al quale la paranoia e il senso di pericolo propri dello scrittore dominano ogni inquadratura e ambiente ma raramente si manifestano, lasciando piuttosto spazio alla costruzione del rapporto simbiotico con il mare, rimarcato da frequenti e suggestive riprese aeree. Nelle rare esplosioni più direttamente orrorifiche il film guarda invece molto al cinema di Carpenter, richiamato per la costruzione visiva – su tutti il prestito della soluzione dello specchio de Il signore del male – o narrativa – l’esplosione del caos ad di fuori mentre il personaggio è in prigione, similmente a quanto accade ne Il seme della follia.

Come detto, la storia di Cthulhu si prende diverse libertà, pur lasciando intatta non solo la carica ansiogena ma anche i temi chiave dello scrittore: il ritorno a casa, la riscoperta dell’eredità e della tradizione con tutta la loro inevitabilità, l’oppressione della famiglia e l’incapacità comunicativa. Tutti aspetti che il regista decide di rendere ancora più centrali, e palesi, creando un raffronto con la tematica relativa all’omosessualità, la sua scoperta e accettazione da parte della famiglia e il sentirsi diversi. Tuttavia qui il film di Gildark accusa un senso di programmaticità; il paragone con l’omosessualità non è l’unico aggancio all’oggi presente nel film – diversi sono gli elementi di denuncia ambientale o critica alla propaganda e politica di Bush – ma è quello che funziona meno, almeno nel suo complesso. Sicuramente si rivela funzionale la rappresentazione aggressiva della donna, connessa al passato e alle ossessioni dello scrittore, come anche il senso di distacco e scarto aggiunto nei confronti della famiglia, ma questi elementi ben funzionanti, e valorizzanti, non riescono a disinnescare del tutto la percezione di una sovra-struttura aggiunta in un secondo momento, unico neo di un film comunque valido e lodevole. E dannatamente lovecraftiano.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 10/03/2017

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